Continuare a comprare armi è una follia, da spesa militare né ricchezza né lavoro - QdS

Continuare a comprare armi è una follia, da spesa militare né ricchezza né lavoro

Continuare a comprare armi è una follia, da spesa militare né ricchezza né lavoro

Giulia Biazzo  |
sabato 02 Dicembre 2023

Report “Arming Europe” (Greenpeace), la ricercatrice Bonaiuti: “Ad arricchirsi sono i Paesi che ce le vendono”. La spesa nei Paesi Nato-Ue è cresciuta quattordici volte più del Pil

ROMA – Nell’ultimo decennio, la spesa per le armi nei Paesi Nato della Ue è cresciuta quattordici volte più del loro Pil complessivo.
In Italia, nello stesso arco di tempo, la spesa per i nuovi sistemi di armamenti è passata da 2,5 miliardi di euro a 5,9 miliardi.

Un passo verso la militarizzazione che rischia sia di destabilizzare ulteriormente l’ordine internazionale, sia di rallentare la crescita dell’economia e dell’occupazione in Europa e in Italia.
È quanto denuncia il rapporto “Arming Europe” commissionato dagli uffici nazionali di Greenpeace Italia, Germania e Spagna.

L’analisi è stata curata da Chiara Bonaiuti, Paolo Maranzano, Mario Pianta, Marco Stamegna e rivela il minor effetto moltiplicatore delle spese militari rispetto a quello degli investimenti su ambiente, istruzione e sanità.

Nell’ultimo decennio in Europa aumento recordo delle spese militari

Il rapporto lanciato lo scorso 27 novembre, mostra che nell’ultimo decennio (2013-2023) in Europa le spese militari hanno registrato un aumento record (+46% nei Paesi Nato-Ue; +26% in Italia) trainato dall’acquisto di nuove armi (+168% nei Paesi Nato-Ue; +132% in Italia).
Un balzo che contrasta con la stagnazione del Pil (+12% nei Paesi Nato-Ue; +9% in Italia) e dell’occupazione in questi Paesi (+9% nei Paesi Nato-Ue; +4% in Italia).

Tolte risorse alla spesa sociale e ambientale

Nonostante le difficoltà delle finanze pubbliche italiane, la spesa militare è cresciuta con un ritmo senza precedenti anche nel nostro Paese, togliendo risorse alla spesa sociale e ambientale. Nel periodo 2013-2023, la spesa militare in Italia è aumentata del 30%. Quella per la sanità è aumentata solo dell’11%, la spesa per l’istruzione del 3% e la spesa per la protezione ambientale del 6%.

Per questo Greenpeace ha lanciato una petizione rivolta al Governo italiano per tagliare le spese militari, rinunciando all’obiettivo Nato del 2% del Pil, di tassare gli extra profitti delle aziende della Difesa e di usare quei fondi per la lotta alla povertà e alla crisi climatica.
Per capire meglio i dati del rapporto “Arming Europe” e le dinamiche politiche che ci sono dietro, abbiamo intervistato una delle autrici: Chiara Bonaiuti, ricercatrice associata presso il Centro Jean Monnet dell’Università di New Castle.

Dottoressa Bonaiuti, dal vostro rapporto si evince che investire in welfare premia molto di più che investire in armamenti: a cos’è dovuta questa dinamica economica?

“Partiamo dal metodo: la nostra analisi del rapporto si basa sul modello Input-Output, ideato da Leontief, un economista che ha vinto il premio Nobel per questo lavoro. L’analisi delle interdipendenze strutturali – input-output appunto – considera l’economia come un sistema interconnesso all’interno del quale si devono applicare relazioni fisse per garantire che un bene possa essere effettivamente prodotto. Le interdipendenze strutturali consentono di stimare i posti di lavoro creati direttamente in un settore quando la spesa in quel settore aumenta, così come i posti di lavoro indiretti creati attraverso la catena di fornitura di quel settore. Le tabelle I-o sono fornite dall’Istat e dall’Ocse e danno informazioni sul fabbisogno di input intermedi nell’economia nazionale per qualsiasi attività. Il dato relativo alla produzione militare è il risultato di una stima basata sulla combinazione delle tre principali componenti della produzione militare: prodotti informatici ed elettronici (software, controlli, sorveglianza), veicoli a motore (carri armati e veicoli blindati) e altri mezzi di trasporto (aerei, navi) che coprono circa il 90% della produzione militare. Tenendo presente che il modello I-o è un’istantanea limitata al presente e non proiettata nel futuro, tra i fattori che influenzano l’impatto della spesa pubblica sull’occupazione i più citati sono tre: 1. Il livello salariale dei posti di lavoro in un determinato settore. Ad esempio, i settori che richiedono elevate competenze creeranno meno posti di lavoro equivalenti a tempo pieno rispetto a un settore con salari medi più bassi per i dipendenti; 2. L’intensità di manodopera si riferisce alla percentuale di spesa totale che viene pagata per il lavoro e i salari. Un settore che si affida più alla manodopera che al capitale crea più posti di lavoro rispetto a un settore a maggiore intensità di capitale e che spende una quota maggiore della spesa pubblica per pagare il capitale (come i costi di costruzione, l’acquisto di attrezzature e così via). 3. La bilancia dei pagamenti e in particolare il livello delle importazioni. La spesa pubblica per l’acquisto di prodotti importati dall’estero aumenterà l’occupazione nei Paesi esteri e non a livello nazionale. La spesa militare rappresenta la quantità di risorse economiche destinate dallo Stato, sulla base delle scelte politiche del governo, al sistema militare del Paese: arruolamento mantenimento delle forze armate, acquisto di armamenti e realizzazione di operazioni militari. È soggetto a diverse spinte: le spese militari sono influenzate e influenzano due principali gruppi di variabili, economiche e industriali da un lato e politico-strategiche dall’altro. La ricerca si concentra sull’impatto economico e occupazionale delle spese militari. La ricerca dimostra che investire in welfare state, come sanità e scuola e istruzione rende di più in termini di occupazione rispetto agli investimenti in spese militari”.

Quali sono i dati per l’Italia? Quanto potremmo guadagnare in più se investissimo le giuste risorse in welfare state?

“Facciamo intanto un calcolo sui dati italiani, a partire dalla ricchezza prodotta e dall’occupazione generata dal 1000 milioni di euro di spesa pubblica. Più in particolare, abbiamo fatto la ricerca, utilizzando il modello Input-Output di cui sopra, che stima la quantità di ricchezza creata da varie forme di spesa pubblica. 1000 milioni di spese in armamenti creano un incremento della produzione diretta e indiretta in Italia di 741,6 milioni di euro, mentre se questa cifra viene spesa per attività legate alla protezione dell’ambiente la ricchezza aumenta e raggiunge i 1900 milioni di euro, per l’istruzione raggiunge i 1254 milioni di euro e per la salute i 1562 milioni di euro. In termini di occupazione, invece, in Italia, 1000 milioni di euro spesi nell’acquisto di armamenti creano 3160 nuovi posti di lavoro a tempo pieno (full time equivalenti), mentre lo stesso miliardo di euro crea 9960 nuovi posti di lavoro nel campo della protezione dell’ambiente, 13890 nella scuola e 12300 nella sanità”.

Perché, quindi, le spese sanitarie e di istruzione creano più ricchezza e soprattutto più posti di lavoro di quelle militari?

“Ciò è dovuto a tre ordini di fattori: il primo è che la spesa militare italiana ed europea si caratterizza per una quota consistente e crescente di importazioni di armi le quali, a parte i casi di compensazioni, non creano ricchezza e occupazione all’interno del nostro paese, ma nei paesi che ce le esportano. Il secondo motivo è dovuto al fatto che sanità e istruzione sono settori ad alta intensità di lavoro e quindi un investimento in questi settori crea nell’immediato più occupazione. Infine si tratta di settori, quelli della sanità e della scuola, dove, purtroppo, gli stipendi sono mediamente più bassi rispetto a quelli di chi lavora nel comparto militare, quindi con la stessa cifra si coprono più persone a tempo pieno con stipendi più bassi. Questi tre motivi aiutano a spiegare perché nel breve periodo l’occupazione generata dalle spese sociali, sanitarie e dall’istruzione sono è maggiore. Nel medio lungo periodo le spese militari hanno alcuni vantaggi dovuti all’alta intensità di capitale, alla quota relativamente più alta di spese per ricerca e sviluppo e alla certezza e continuità dei versamenti statali. Tuttavia, parte di questi vantaggi si perdono per le caratteristiche peculiari del mercato delle armi chiamato monopsonistico, dove c’è un unico acquirente, lo Stato, e pochi venditori (si tratta di un mercato molto concentrato) e dove spesso la domanda non la fa il mercato ma viene stabilita da chi offre armamenti. Ciò fa sì che spesso il costo degli armamenti possa enormemente lievitare nel corso degli anni, vedi Nones 2013 – ad esempio per i tempest – per cui un bullone di un aereo militare può costare molto di più di un bullone di un aereo civile.”

Negli ultimi 10 anni le spese militari sono cresciute, ne abbiamo parlato di recente al QdS con l’economista Mario Pianta, nonché autore anch’egli del rapporto in questione: non si può dire lo stesso del Pil interno italiano. Che conseguenze subiscono i cittadini?

“Nell’arco di dieci anni cioè dal 2013 al 2023 il Pil è salito solo del 9% che è in media meno dell’1% all’anno, e l’occupazione appena del 4%, al contrario le spese militari (incluse anche quelle per il personale e altre voci) del 26% quelle specifiche per armamenti addirittura del 132%. Nonostante la grave crisi delle finanze pubbliche nel corso del decennio, la spesa pubblica è aumentata solo del 13%, dell’11% nel caso della sanità e appena del 3% e 6% rispettivamente per istruzione e ambiente, a fronte della già citata crescita delle spese militari del 26%. Il nostro paese è quello che aumenta meno, tra i partner europei che abbiamo analizzato, la spesa sanitaria. E purtroppo la vita media è diminuita negli ultimi anni così come la speranza di sopravvivenza delle persone anziane che si ricoverano al pronto soccorso. Penso si debba fare fede al concetto di sicurezza umana di Mary Kaldor, che è una studiosa inglese che si è occupata di armamenti: questo concetto mette al centro la persona e considera la sicurezza non solo nell’aspetto strettamente militare, ma anche in quello ambientale, sanitario, economico, ecc. Questa teoria è stata fatta propria dalle Nazioni Unite nel 2012 e ripreso da molti documenti sulla difesa nazionali come quello tedesco, spagnolo o dagli stessi documenti della Nato. In effetti, anche la pandemia o il cambiamento climatico costituiscono delle minacce alla sicurezza dei cittadini e delle generazioni future. I dati purtroppo lo confermano. Secondo l’Università di Uppsala, nel 2022 i morti nei conflitti tra Stati sono stati 204.009 e 81.856 solo in Europa; secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2021 in Europa ci sono state 2 milioni di vittime del coronavirus e 1,4 milioni di vittime del cambiamento climatico. Tutto questo rende evidente come una risposta solo militare non sia adeguata ad affrontare le varie minacce alla sicurezza e come sia necessario un ribilanciamento della spesa, sia per motivi economici ed occupazionali che per motivi di sicurezza umana”.

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