Cop27, la fiera dell’irresponsabilità - QdS

Cop27, la fiera dell’irresponsabilità

Cop27, la fiera dell’irresponsabilità

Vittorio Sangiorgi  |
sabato 19 Novembre 2022

Si continua a perdere tempo e ormai l’obiettivo di mantenere le temperature entro 1,5° appare irraggiungibile. Anche l’Italia non sta facendo abbastanza. Il parere del climatologo Fazzini

Si chiuderà oggi, un giorno più tardi rispetto a quanto inizialmente previsto, la Cop27, la conferenza sul clima di Sharm El-Sheikh. Un rinvio annunciato dal ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry, nella sua veste di presidente della conferenza delle Nazioni Unite sul clima, e motivato dalla necessità di prolungare le trattative per trovare un accordo di massima e per arrivare alla stesura di un soddisfacente documento finale. Le premesse non sono delle migliori e il rischio che la Cop27 sia un “buco nell’acqua” è concreto. D’altra parte, in queste due settimane, sono state timide le risposte su temi ritenuti fondamentali, come l’impegno a non superare l’aumento della temperatura a 1,5°C, lo stanziamento di un fondo per i danni causati dal riscaldamento globale e l’attenzione ai bisogni specifici dell’Africa.

Il tema del clima rimane, tuttavia, particolarmente importante – soprattutto in termini di adattamento e “sopravvivenza” – anche alla luce di quanto emerso in questi giorni, proprio nell’ambito dei lavori della Cop 27. Si pensi, ad esempio, al Climate change performance index 2023 ovvero il rapporto sulla performance climatica dei principali paesi del mondo, redatto da Germanwatch, Can e NewClimate institute in collaborazione – per ciò che concerne l’Italia – con Legambiente. I parametri di riferimento del Ccpi si basano sugli obiettivi dell’accordo di Parigi e gli impegni assunti, dai vari stati, per il 2030.

Protagoniste del monitoraggio sono 59 nazioni mondiali e gli stati della Ue (considerata, però, come un’unica entità). L’indice esamina quattro categorie: emissioni di gas serra (che influiscono per il40% sul punteggio finale), sviluppo delle rinnovabili, consumo di energia e politica climatica, ognuna delle quali vale il 20%. L’analisi dei risultati restituisce una situazione non certo rosea per il nostro paese, che si piazza al 29° posto in graduatoria guadagnandone una rispetto al report precedente. L’Unione europea, nel suo complesso, è 19°.

Un risultato frutto della media tra gli ottimi piazzamenti dei paesi scandinavi (Danimarca e Svezia, che “guardano” tutti dall’alto) e quelli negativi di Turchia (47^), Ungheria (53^) e Polonia (54^). Da sottolineare come, anche quest’anno, le prime tre posizioni della classifica siano vacanti, dal momento che nessuna delle nazioni prese in esame ha raggiunto risultati “da podio”. Ma quali sono le zavorre che spingono in basso l’Italia? Principalmente due, ovvero una politica climatica inadeguata all’emergenza e i ritardi nello sviluppo delle rinnovabili.

Il climatologo Massimiliano Frazzini

Sulla prima di queste criticità e sui numerosi temi legati al cambiamento climatico, il QdS ha interpellato il climatologo Massimiliano Fazzini, referente del team rischio climatico della Società italiana geologia ambientale che, nella sua analisi, offre un più articolato punto di vista: “Attraverso lo studio dei dati e, indirettamente, delle simulazioni sul clima futuro nel medio e lungo termine, cerchiamo di comprendere dove questa estremizzazione o crisi climatica potrà arrivare. Quest’anno potrebbe essere il più caldo del secolo, vedremo come evolverà l’ultima fase di novembre e soprattutto dicembre. La questione – precisa – non sta nei millesimi o centesimi di grado, ma nel fatto che a fronte di un anno effettivamente caldo e siccitoso, c’è una tendenza all’estremizzazione del clima. Cioè, sono sempre più evidenti i due rovesci della medaglia, da una parte la siccità, dall’altra le alluvioni sempre più frequenti che interrompono questi lunghi periodi di ‘secca’. L’ultimo esempio è quello di Pachino, colpito da una bomba d’acqua pochi giorni fa”.

In virtù di queste premesse, a proposito di uno dei temi dirimenti della Cop 27, Fazzini precisa: “Obiettivamente non dobbiamo stare a guardare a cifre come 1,5° o 1,6° ma dobbiamo renderci conto che c’è questa tendenza del clima a diventare da equilibrato a non equilibrato. Di conseguenza, visto che il problema della prevenzione in Italia lo abbiamo saltato a piè pari per una serie di motivi, in primis istituzionali – politici, ora dobbiamo cercare di adattarci meglio a questo presunto nuovo clima”.

Politica climatica inadeguata

Adattamento che passa, lo si accennava poc’anzi, anche da quelle politiche che oggi in Italia latitano. Basta guardare allo sviluppo della mobilità sostenibile, fondamentale per contrastare l’inquinamento da polveri sottili, che non ha ancora raggiunto livelli soddisfacenti su tutto il territorio nazionale. Ne abbiamo parlato diffusamente nell’inchiesta pubblicata il 26 ottobre, in cui evidenziavamo che – praticamente in tutta Italia – l’eccedenza delle sostanze inquinanti supera largamente i parametri stabiliti dall’Oms. Non va meglio per ciò che concerne la decarbonizzazione e, più in generale, le politiche orientate alla riduzione delle emissioni climalteranti.

Temi strettamente legati allo sviluppo delle rinnovabili, uno dei parametri considerati dal già citato indice, che nella nostra nazione è “drammaticamente” collegato a tempi pachidermici e infinite lungaggini burocratiche. Allo stato attuale sono ben 700 i progetti per eolico e fotovoltaico fermi in attesa di “Via” Statale. “L’Italia – si legge in un rapporto GreenItaly realizzato da Fondazione Symbola e Unioncamere in collaborazione con il centro studi Tagliacarne – viaggia al ritmo di 1 Gw l’anno a fronte dei 7-8 che dovrebbe installare”.

La transizione ecologica rimane una chimera

Alla luce di questi dati la transizione ecologica rimane una chimera. Serve, dunque, un deciso cambio di rotta, soprattutto nelle aree maggiormente esposte ai rischi dei cambiamenti climatici. Ma quali sono esattamente? “Per ragioni logiche e scientifiche dobbiamo guardare, principalmente, al bacino del Mediterraneo che rappresenta – spiega il climatologo Fazzini – l’area densamente popolata più a rischio del mondo. Ci sono, infatti, delle zone in cui il clima è ancora più estremizzato, ma sono disabitate o semidisabitate come Siberia ed Artide o alcune zone interne del Brasile. Lungo le coste del Mare Nostrum, invece, abitano più di 500 milioni di persone. Ed è chiaro che, essendo caratterizzato da un innalzamento delle temperature particolarmente elevato e da un ambiente fisico è più vulnerabile, il rischio aumenta. Dobbiamo, quindi, concentrare gli sforzi di analisi tecnico-scientifica lungo le nostre coste e, in generale, nell’ambiente mediterraneo”.

La necessità di interventi efficaci, d’altronde, è stata da più parti richiamata proprio nei giorni della Cop 27, considerata come un’occasione da non perdere. Ne ha parlato anche Papa Francesco che, nel corso dell’Angelus, ha chiesto di “rispondere al grido della Terra e dei poveri”. Un invito, evidentemente, non colto visti i risultati che hanno confermato il lapidario giudizio del Wwf. L’associazione ambientalista, infatti, aveva definito la prima settimana di lavori “priva di risultati di rilievo”. Al di là dei veti incrociati e delle rispettive rivendicazioni, si fa concreto il rischio che a pagare i danni più grandi siano proprio i paesi più poveri e più deboli, i minori responsabili dello stato delle cose.

Il climatologo Fazzini spiega i cambiamenti che stanno interessando la Sicilia

Fin qui la situazione generale, che non muta e anzi probabilmente si aggrava spostando l’attenzione sulla Sicilia. La nostra regione, per caratteristiche fisiche e naturali, è maggiormente esposta all’alterazione del clima. Alterazione che, inoltre, potrebbe pesare maggiormente anche da un punto di vista socio-economico. In questi anni, poi, sono stati dipinti diversi scenari “apocalittici”, anche in relazione all’innalzamento delle temperature e al rischio di desertificazione.

Scenari che vengono ridimensionati da Massimiliano Fazzini: “La Sicilia rischia di diventare inabitabile nel medio periodo? “No, assolutamente. L’estremizzazione va bene, ma non drammatizziamo oltre. Questa terra è, da sempre, caratterizzata da eccessi termici, soprattutto nelle sue aree interne, rispetto al territorio italiano. Certo, le ondate di calore diverranno più intense, ma il popolo siciliano è abituato a certi tipi di situazioni bioclimatologiche avverse. Sicuramente anche le colture, dal punto di vista agricolo, sopportano le temperature più elevate”.

Esiste, tuttavia, una questione più urgente: “Il problema è più sentito – aggiunge – per ciò che concerne le precipitazioni. In realtà la Calabria e la Sicilia negli ultimi quindici anni hanno registrato un lieve aumento delle precipitazioni medie annue. Quindi piove di più, però piove per un numero di giorni molto inferiore rispetto a quello che si riscontrava un ventina d’anni fa. Per cui è evidente che l’estremizzazione pluviometrica sia spinta sulle estreme regioni meridionali in virtù, soprattutto, delle elevatissime temperature che il mare raggiunge nei mesi estivi e che poi mantiene – in virtù del suo potere termoregolatore – anche durante l’autunno. Proprio questa stagione, quindi, vede spesso protagonisti dei cicloni mediterranei particolarmente intensi e che spesso danno quantitativi di pioggia pari a metà della cumulata annua, concentrata però in 58-72 ore”.

Da questi rilievi di carattere scientifico emerge, quindi, il fattore di rischio più grave per un settore, quello dell’agricoltura, che nella nostra isola ha un’importanza strategica. Il combinato disposto caldo siccitoso – bombe d’acqua, rappresenta infatti un colpo da K.O. “Il problema è proprio questo – spiega Fazzini – avere più pioggia non significa che il terreno non tenda poi a inaridirsi, tutt’altro. Gli effetti del dilavamento delle piogge intense porta via l’orizzonte A, cioè lo strato ricco di humus, ed è chiaro che sfavorisce ulteriormente la produzione agricola”.

Altra problematica particolarmente sentita in aree come la Sicilia è quella delle inondazioni. Tema sul quale, il climatologo precisa: “Se studiamo i dati storici sul livello delle acque, relativamente al bacino mediterraneo, ci accorgiamo che c’è un evidente aumento. Aumento dovuto in parte allo scioglimento delle calotte artiche e in parte all’effetto sferico, derivante dall’aumento delle temperature. Più queste sono elevate, più l’acqua aumenta di densità e quindi ‘si gonfia’. Al momento, però, gli incrementi del livello medio mare non sono tali da poter rendere, a mio modesto parere, reali i calcoli di alcuni enti di ricerca che pronosticano l’aumento del livello delle acque fino ad un metro entro il 2050. Sono discorsi un po’ forzati nei modelli, io non faccio il modellista ma dico la mia”.

Una situazione, quindi, che nel medio periodo non appare drammatica, anche in considerazione di altri fenomeni naturali: “Negli ultimi 15 anni abbiamo avuto un costante aumento della pressione al suolo. Evidentemente se questa aumenta e insiste sul mare, ‘abbassa’ anche il livello medio marino. Questo è un segnale attenuante del livello medio marino, che altrimenti sarebbe più elevato di qualche centimetro. In natura dobbiamo considerare tutto, ed è giusto tenere in conto questo fenomeno”.

Elementi che portano Fazzini a concludere: “È vero che per le coste particolarmente piatte, con sistemi dunali in erosione e un entroterra sotto il livello del mare tale problematica c’è. Ma questa problematica esiste un po’ in tutta Italia, specialmente sull’alto Adriatico e in alcune zone del Tirreno. In sintesi è un problema comune, da affrontare in termini di adattamento, ma non è che tra dieci anni ci ritroveremo con città sommerse”.

Fin qui le criticità, ma vogliamo anche menzionare le possibili soluzioni e le alternative per evitare scenari ben più tetri. Tornando all’argomento rinnovabili, rileviamo numeri significativi anche in Sicilia. A settembre 2022 erano 107 i progetti “isolani” censiti in Via nazionale e, soltanto in un caso, la procedura risultava conclusa. Ancora di più, 200, sono i progetti in attesa di autorizzazione da parte della commissione Via-Vas regionale. Secondo alcuni calcoli, se fossero sbloccate tutte le “pratiche” ferme al Ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica, in Sicilia potrebbe essere installata una potenza di 9 GW. Sarebbe il primo passo verso una potenziale strategia vincente e coraggiosa, quella che renerebbe la nostra regione e in generale il Meridione, un vero e proprio hub delle rinnovabili.

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