Mi pare del tutto chiaro che la guerra non si faccia solo con le armi o con le sanzioni economiche
La guerra che la potente Russia ha scatenato contro la coraggiosa Ucraina, lo si detto in più sedi ed in più occasioni, cambierà il nostro futuro di italiani ed il futuro dell’Europa e del mondo. Dopo la moneta comune, sembra ormai ovvio che nascerà un sistema di difesa comune, una politica estera comune, mi auguro anche un progetto di crescita economica e sociale davvero comune. Forse, finalmente, a Bruxelles ed a Berlino, a Parigi e a Madrid, a Roma e ad Atene, ecc. si comprenderà che o si cresce e ci si difende insieme o non si cresce e non ci si difende affatto. Tuttavia credo che ci si debba soffermare pure su un altro aspetto, altrettanto importante, ma del quale, fino ad oggi, pochi parlano. Mi riferisco alla comunicazione e all’informazione: questioni niente affatto secondarie. Mi pare del tutto chiaro che, in questo periodo più che mai, la guerra non si faccia solo con le armi o con le sanzioni economiche, ma anche con l’informazione e soprattutto con disinformazione. In realtà non si tratta affatto di una novità.
Le “veline” del “Min.Cul.Pop.” di mussoliniana memoria, non le ho certo inventate io, né sono stato io ad inventare “la Pravda”, l’organo ufficiale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, poi riconvertito in organo ufficiale del Partito Comunista della Federazione Russa. Tuttavia la questione che desidero affrontare non riguarda il diritto di chiunque a dotarsi di un organo ufficiale, che ne esprima le posizioni: ci mancherebbe altro! Il problema è più sottile e del tutto differente, poiché riguarda i giornali, le agenzie di stampa, un po’ meno le testate on line, i quali, attraversando una crisi finanziaria assai profonda, non sempre sono in grado di affrontare le spese necessaria ad accertare che quanto viene detto “ufficialmente” sia vero. Tutto questo, purtroppo, accade perché non ci sono più redazioni, adeguatamente preparate e mediamente indipendenti, capaci di far fronte alla “disinformatia”, come la si definisce ora, con una chiara allusione proprio alla Russia, cioè a dire alla disinformazione.
Nelle scienze della comunicazione la disinformazione è il fenomeno che si verifica quando le notizie trasmesse, acquisite o percepite da un soggetto possono non corrispondere alla verità dei fatti e persino alla stessa intenzione per le quali esse sono state diffuse; così come possono rappresentare episodi volutamente “ritoccati” oppure “addomesticati” dalla fonte, per confondere o modificare le opinioni di una persona o addirittura di intere moltitudini di persone. Insomma, il soggetto debole è l’informazione indipendente e la necessità che uno stato davvero libero e democratico si ponga seriamente l’obiettivo di risolvere il problema di sostenerla, di come difenderla, di come consentirle di esercitare pienamente il diritto di cronaca.
Il rischio che si corre è che, sempre di più, la nostra informazione si trovi di fronte ad un bivio per nulla entusiasmante: o essere preda degli inserzionisti, che le impediranno di parlare di ciò che potrebbe danneggiarli, oppure essere preda del “genio comunicatori”, il nuovo corpo “paramilitare” che la pubblica amministrazione sta addestrando, trasformano i giornalisti degli uffici stampa, quelli che devono rispondere, in qualche modo, ad un codice deontologico, in burocrati, in comuni impiegati al servizio del potere, dunque dell’informazione di regime. Non sarò certo io a sostenere l’esigenza di abbassare il livello della comunicazione pubblica, che anzi, rispetto ad oggi, va sicuramente innalzato.
Dico soltanto che, per bilanciare questo genere di dinamiche, nello spirito dei contrappesi, voluto dalla Costituzione italiana, è necessario permettere alle redazioni di rafforzarsi. Diversamente, sempre di più, i “comunicati ufficiali” si trasformeranno in articoli sostitutivi di quelli di cronaca ed i lettori non sapranno mai se i pezzi pubblicati saranno veri, verosimili o palesemente falsi. D’altra parte, come diceva Luigi Barzini, che di informazione se ne intendeva parecchio: “fare il giornalista è sempre meglio che lavorare” e anche l’indolenza professionale costituisce una componente da non trascurare.