Forum con Francesco Galli, presidente del Comitato Strategy and Operations del Gruppo San Donato
Un confronto su questioni strutturali e non contingenti: ospite di questo Forum con il QdS, alla presenza del direttore, Carlo Alberto Tregua, il presidente del Comitato Strategy and Operations del Gruppo San Donato, Francesco Galli.
Il sistema sanitario italiano, nonostante alcune sacche di inefficienza, fornisce un medico di base e l’accesso ospedaliero gratuito a tutti. È un apparato di tutto rispetto, anche se sicuramente è migliorabile. Come valuta la gratuità per tutti della sanità, che non tiene in alcun conto il reddito?
“Ritengo che sia giusto, ma credo che la crescita dei fondi assicurativi forniti dalle aziende sia una cosa positiva. I fondi, per quanto alti, difficilmente sono sufficienti per tutto e per tutti, per cui è necessario aumentare l’efficienza per evitare sprechi, se no verranno ridotte le prestazioni. Se le aziende forniscono l’assistenza sanitaria ai loro dipendenti si liberano posti per curare coloro che non hanno un’assicurazione. In Italia un gran numero di assicurati non sfrutta i servizi per paura che venga aumentato il premio. Chi ha un’assicurazione e non la utilizza toglie il posto a chi non ce l’ha. Gruppo San Donato (GSD) ha deciso di creare una joint venture ambulatoriale con Generali con l’obiettivo di arrivare a creare cento strutture in tutto il Paese”.
Perché le Regioni pongono un limite al finanziamento del privato se a fronte delle prestazioni erogate vengono riconosciuti gli stessi costi, tanto al pubblico quanto al privato?
“Il pubblico riceve finanziamenti separati per gli investimenti, oltre a quanto percepisce per le cure. I privati no. Un Decreto ministeriale fissa un tetto al finanziamento alle strutture private. Il Governo ha deciso di sfondare questo tetto dell’1% quest’anno e per i prossimi due, con l’obiettivo di ridurre le liste d’attesa. Da questo limite dovrebbero essere eliminate anche le prestazioni salvavita in urgenza, riconoscendo che il sistema ha sempre più bisogno dell’emergenza e dell’urgenza”.
Secondo molti privati il Pronto soccorso non conviene. Qual è il suo punto di vista?
“Francamente, lo ritengo un discorso odioso. Ci sono delle specialità che non sono redditizie, tra cui anche il Pronto soccorso. Bisogna impegnare molte risorse senza la possibilità di programmare, ma se facciamo parte del sistema dobbiamo farcene carico. Se non lo facessimo non saremmo un ospedale ma una clinica, cosa a cui non siamo interessati. Per legge non possiamo chiamarci ospedali ma ci sentiamo tali. Da cinquant’anni siamo attenti nell’accogliere le persone e mettiamo molta cura nell’umanizzazione e ci teniamo che le nostre strutture siano belle. Se un ospedale è bello anche l’esperienza di cura del malato ne trae beneficio e i medici migliori non vanno negli ospedali brutti. In Italia, ma non soltanto, gli ospedali vengono anche giudicati per il vitto e la pulizia. Girando tra i nostri ospedali ho l’abitudine di guardare il soffitto, la visuale tipica di chi sta in un letto, un dettaglio da cui si valuta inevitabilmente cosa ci si può aspettare in sala operatoria. Non solo bisogna avere la tecnologia migliore, anche perché in questo modo si possono avere i migliori medici, ma occorre anche sapersi mettere nei panni di chi entra in una struttura ospedaliera”.
La sanità è tutta pubblica, anche se in parte è a conduzione privata. Pensa anche lei che sia così?
“Certamente la sanità è tutta pubblica, e il cittadino che deve farsi curare non si pone il problema della proprietà dell’ospedale ma di poter accedere alle migliori cure con i migliori medici. Il cittadino si chiede se sta andando in un buon ospedale e sarà curato da un buon medico. La diatriba pubblico-privato è una questione ideologica antiquata, da tribuna politica.
Qual è la differenza fondamentale tra la gestione di un ospedale privato e uno pubblico?
“Gli ospedali pubblici hanno l’obbligo del pareggio di bilancio ma in caso di perdite queste vengono ripianate con fondi pubblici. Quelli privati se non conseguono almeno un piccolo margine di profitto vanno in perdita e falliscono. In generale, credo che il sistema pubblico e quello privato funzionino bene. Penso che gli italiani siano curati in modo adeguato e gratuitamente”.
La forza di un Gruppo fondato quasi settant’anni fa unico in Europa per la qualità di didattica e ricerca
Qual è la storia del Gruppo San Donato?
“Il GSD è stato fondato nel 1957 e oggi è fra i primi gruppi ospedalieri europei e il primo in Italia. È costituto da 63 sedi, di cui 3 Irccs a Milano (Policlinico San Donato, Ospedale San Raffaele, Ospedale Galeazzi-Sant’Ambrogio). Cura circa 5 milioni di pazienti all’anno, in tutte le specialità riconosciute, essendo tra i leader, a livello nazionale e internazionale, in Cardiochirurgia, Cardiologia, Chirurgia vascolare, Neurochirurgia, Ortopedia e Cura dell’obesità. Oltre all’eccellenza dell’attività clinica, ciò che rende unico GSD in Europa è la qualità dell’attività di didattica universitaria e di ricerca scientifica. Nel 2022 ha fatturato di 1,9 miliardi di euro”.
In che modo il vostro Gruppo è presente in Sicilia?
“È stata vinta una gara bandita dalla Regione per il reparto di Cardiochirurgia pediatrica all’interno dell’Ospedale civico di Palermo. Abbiamo un contratto per sette anni che prevede anche la formazione del personale, in modo che al termine del periodo l’Ospedale possa essere autonomo, con una propria equipe formata. Questo modello, una partnership tra pubblico e privato, è poco diffuso in Italia, ma riteniamo che possa essere vincente. L’amministrazione pubblica per essere più efficiente, oltre che efficace, potrebbe chiedere al privato di gestire anche solo alcuni reparti dell’ospedale. Oggi ci sono difficoltà nel trovare medici o ristrutturare edifici fatiscenti, cosa che potrebbe fare benissimo un privato se avesse la gestione per vent’anni. In Lombardia, per esempio, sono stati dati in gestione piccoli ospedali locali, in zone di montagna o che presentano particolari difficoltà. Un caso emblematico è quello di un ospedale che perdeva due milioni di euro l’anno ed è stato affittato a un privato, portando alle casse pubbliche due milioni di euro”.
I Livelli essenziali di assistenza, i Lea, sono indicatori che possono mettere in evidenza le problematiche del settore. Che utilità hanno?
“Il programma esiti di Agenas è il nostro punto di riferimento anche se è molto difficile misurare gli esiti clinici di una cura. Noi siamo sostenitori di questo tipo di misurazioni oggettive. Ne esistono altre, come ad esempio la misurazione che fa da qualche anno a questa parte Newsweek, che prendono in considerazione anche dati provenienti da fonti diverse. Siamo molto favorevoli a una corretta misurazione e anche al riconoscimento economico sulla base dei risultati ottenuti. Abbiamo acquisito un gruppo ospedaliero polacco che riceve una percentuale pari al 10% del costo della cura se dopo un certo numero di mesi il paziente è ancora curato e sano. Anche in Italia è arrivato il momento di misurare in modo oggettivo e indipendente la sanità, utilizzando gli stessi criteri sia per il pubblico che per il privato. In questo modo anche il cittadino potrà scegliere dove curarsi in base all’efficacia delle cure e non in base alla qualità dei pasti.
Come può incidere questo nel sistema sanitario italiano e sulle persone che ne fanno parte?
“L’efficienza del sistema italiano è straordinaria, altissima. L’efficacia delle cure però non è ancora adeguatamente misurata. Nella sanità ci sono tante persone responsabili, medici bravissimi che vorrebbero venire a lavorare da noi, ma non si muovono perché vedono il loro lavoro come una missione. Non si tratta nemmeno di una questione economica. A volte si possono convincere alcuni medici se gli si prospetta di entrare in strutture tecnologicamente molto avanzate come il San Raffaele, ma c’è un’altissima fidelizzazione rispetto alla missione”.