Giocare, per ritrovare maggiore saggezza - QdS

Giocare, per ritrovare maggiore saggezza

Giocare, per ritrovare maggiore saggezza

giovedì 24 Febbraio 2022

Sebastiano D’urso, è convinto che soltanto la dimensione ludica potrà condurci verso scenari esistenziali che altrimenti non riusciremo ad immaginare

In questa rubrica, mi sono impegnato a voler mettere in luce le traiettorie d’efficacia inerenti il recupero, la ri-funzionalizzazione e la riqualificazione ambientale, e sociale, di brani del tessuto urbano o di interi contesti ambientali, particolarmente esposti al degrado. A ragione di ciò, ho operato (e continuerò a farlo per voi, miei cari lettori) il coinvolgimento di alcuni protagonisti di tali pratiche, di efficaci processi di determinazione di traiettorie di solvimento di problematiche complesse, attraverso lo strumento del progetto.

Oggi ho inteso raccogliere le riflessioni di Sebastiano D’Urso, ingegnere e docente di Composizione Architettonica e Urbana presso l’Università degli Studi di Catania. Ho conosciuto Sebastiano D’Urso anni addietro, attirato dalla presentazione in Feltrinelli di un suo libro dal titolo “Goodbye Topolinia”(Collana Proiezioni, Malcor D, 2013, NdA), subito ho detto a me stesso che, inevitabilmente l’autore doveva essere un mio amico, ed era stato certamente ad opera di una qualche reciproca distrazione, la mancata connessione, sino ad allora, tra noi due. E, come al solito, il mio istinto – ma sarebbe meglio dire il mio naso, sì vistoso! -, non mi tradisce mai. Di recente, sono solito intrattenermi con lui, in merito alle vicende che lo impegnano in numerosi ambiti della disciplina di progetto, soprattutto con la questione delle contaminazioni tra le diverse forme dell’espressione artistica e le ricadute sulla società, progetti messi in campo mediante il lavoro sapiente di ricerca e confronto sui temi dell’urgenza della bellezza nell’attuale società delle emergenze.

Sebastiano peraltro, è colui che mi ha coinvolto dentro la Collana Proiezioni, che accoglie opere editoriali sulle traiettorie proprie delle discipline di progetto, cui è l’ideatore, insieme all’editore Manlio D’Urso fondatore della Casa editrice Malcor D’Edizioni.

Bene, Sebastiano, quali sono, secondo te, le traiettorie di induzione alla partecipazione attiva della utenza, che noi designer possiamo innestare attraverso l’esercizio, gigantesco ed illimitato, inesauribile, del potenziale connesso alla frazione ludica, giorno per giorno, istante per istante? È un potenziale energetico incommensurabile ed estremamente efficace, se ci pensi……, basterebbe metterlo in esercizio con le opportune procedure.

“Credo che bisogna seriamente cominciare a prendersi meno sul serio. Non è una battuta per fare il simpatico o lo stravagante, ma sono convinto che la dimensione ludica sia alla base dell’apprendimento e della costruzione della conoscenza. Ma su questo siamo d’accordo e infatti tu mi chiedi come coinvolgere le persone (utenti, clienti, allievi, eccetera) in questo esercizio. Io non credo che ci siano procedure particolari. So per certo che il gioco è contagioso e che per coinvolgere altri a parteciparvi, bisogna solo cominciare a giocare. Infatti per giocare, a meno di esercizi onanistici che non producono nessuna conoscenza ma solo un immediato ed effimero piacere fine a se stesso, bisogna essere almeno in due. Lo sanno bene i bambini che spesso si inventano compagni di gioco immaginari con cui, però, interagiscono realmente. Quindi, cominciamo a giocare. È una esortazione”.

Nei miei scritti parlo spesso di Design Therapy, quale nuovo ‘bisogno’, in un’era in cui tale termine è stato destituito dal termine ‘desiderio’, ovvero della realizzazione di serie di azioni concrete nella nostra vita reale, per la realizzazione di un Paesaggio Risonante. Come pensi possa essere accolta, dagli enti competenti, tale procedura di realizzazione di uno scenario attivo nei nostri contesti territoriali?
“Nell’immediato, reagirebbero in maniera entusiasta all’idea per poi cominciare a mettere dei distinguo che potrebbero minarne la forza, ridurne il potenziale immaginifico, snaturarne le ragioni, eccetera. Tuttavia il tentativo va fatto fino a quando non si trova la giusta “risonanza” con l’ente, o meglio con i rappresentanti dell’ente, così da cominciare a realizzare il primo di questi “paesaggi risonanti”, che è proprio quello delle relazioni tra gli esseri umani e poi tra gli esseri umani e l’ambiente”.

Quali limiti possiede uno strumento di pianificazione e governo dei nostri contesti ambientali, quale è quello del PRG che, per definizione ha una durata illimitata, in un’era in cui i profili d’esercizio sempre più dichiarati, delle volte con grande spudoratezza e poca adesione ai feroci parametri propri della realtà concreta, sono quelli propri della Smart City?
“Il vero limite è il tempo di attuazione. Un limite che oggi, nell’epoca del tutto e subito ovvero delle politiche a breve termine, è più pressante che in passato. E questo limite vale anche per le cosiddette Smart cities (etichetta tanto alla moda quanto vaga) per le quali auspico, così come suggerisce il mio amico filosofo Davide Miccione, un cambio di paradigma, da smart a wise. Da “smart”, che significa intelligente ma anche furba, a “wise”, che significa saggia. In una condizione di maggiore saggezza (wisdom) anche il limite temporale potrebbe essere un’opportunità invece che una barriera”.

Come si conciliano questi due profili d’intervento, in un contesto urbano che non può fare più a meno di dover accogliere nella determinazione dei suoi parametri d’ingaggio e d’esercizio termini quali “temporaneità”, “provvisorietà”, “mutabilità”, “impermanenza”?
“Possono trovare una conciliazione effettiva nella misura in cui, qualunque sia lo strumento, le decisioni sono prese con saggezza (che nel caso di interventi urbani vuol dire soprattutto nell’interesse della comunità) e non con furbizia (che spesso corrisponde a interessi particolari e non generali). Perché gli strumenti da soli sono innocui e neutri, dipende sempre da come li usi: un martello serve a costruire ma può anche uccidere”.

Con il salto nel nuovo millennio, si è mostrata sempre più irrevocabile la questione del ridisegno, in maniera continuata, del nostro scenario di prossimità, specie alla luce della comparsa di nuove problematiche di relazione dinamica tra entità ed individui presenti in un contesto urbano, ora resi particolarmente pressanti in ragione della presenza e dell’alternarsi di crisi economico-finanziarie, ambientali, sanitarie.
“Ridisegnare in questo scenario che hai tratteggiato dovrebbe voler dire tra le tante cose: non consumare nuovo suolo; valorizzare il patrimonio esistente; rigenerare le piccole realtà urbane; inventare inedite convivenze tra nuovo e antico; pensare in termini di palinsesto; essere più tradizionali nella doppia accezione del termine di portare dal passato ma anche di tradirlo. Ridisegnare oggi dovrebbe voler dire in una sola parola, anch’essa usata e abusata nell’attuale dibattito culturale, essere più sostenibili”.

Già il mio amico Francesco Morace, sociologo e fondatore del Future Concept Lab descrive la penisola italiana come un immenso, risonante, emittente Laboratorio creativo dal potenziale gigantesco. Pensi che la soluzione possa passare attraverso la costituzione di una costellazione di Design Lab Permanenti, parte di una più grande sovrastruttura, capace di poter accogliere, in tempo reale, istanze e professionalità altamente specialistiche al suo interno?
“D’accordo con la descrizione della nostra penisola, non posso che dire che è una bella idea ma come ogni bella idea ha necessità di un complesso lavoro di relazioni per potere essere attuata”.

Dal cucchiaio alla città. A mio avviso, questa frase potrebbe essere il necrologio di tutta la stagione dell’utopia modernista, spazzata via dalla pochezza dei suoi contenuti umani. In ogni caso, oggi potrebbe essere mutuata in dal cucchiaio alla citta’ e dalla città al cucchiaio!. Chiudendo il cerchio, una volta per tutte, senza indugi, con la ferocia, benefica ed augurale, persino formativa, del buon padre di famiglia. Tu sei un docente di Composizione architettonica e urbana presso il Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura (DICAr) dell’Università degli Studi di Catania, sei condannato a vivere a contatto con quelle che saranno le generazioni dei futuri designer, questa nuova generazione di designer sarà chiamata all’assolvimento di un compito tanto entusiasmante quanto gravoso, quello della realizzazione di un nuovo scenario esistenziale. Quale potenziale di accoglimento di questa sfida, tutta imperniata attorno alle questioni di progetto, intravvedi in questa generazione?
“Il mio ottimismo, anche se sempre più affievolito dal passare degli anni, mi fa sperare che il potenziale delle nuove generazioni riserverà scenari che ancora non è possibile prevedere. E l’impossibilità della previsione è in parte una fortuna e in parte no. È una fortuna perché ogni scenario sarà una sorpresa che nessuno potrà rovinare prima; è una sfortuna perché significa che abbiamo perso la capacità di immaginare il futuro. Indipendentemente dagli slogan quello che manca è la visione del futuro e non solo: manca l’utopia”.

Quali sono le loro traiettorie d’ingaggio, non percepite dai designer che li hanno preceduti?
“Ciò che passa impercepito è la ragione per cui si fanno le cose. Il dominio della tecnica su ogni altro aspetto della vita sta, poco alla volta, eliminando le domande. Non ci si chiede più il perché si facciano certe cose. Si fanno e basta”.

La Natura si riappropria del suo potenziale creativo, esibendo una ricchezza di contenuti, di elementi generativi estremamente seducenti e, di una forza devastante, ed io non nutro ormai alcun dubbio, sull’inefficacia di un mondo troppo progettato, troppo disegnato, un mondo ostile ad ogni possibilità di riconoscimento del vivere umano. Quale è il tuo pensiero in merito a tale riflessione?

“Tra le domande che non ci si fa più ci sono anche quelle sulla natura. Una domanda ingenua ma allo stesso tempo davvero impegnativa, come molte domande semplici ma schiette, è proprio: cosa è la Natura? La mia riflessione vuole partire dal tentativo di dare una risposta a questa domanda. Ma ciò comporterebbe la necessità di uno spazio che va al di là di quello che è concesso per un’intervista. Al momento mi basta rispondere alla tua domanda con quell’altra domanda (che cosa è la natura?), nella speranza che possa essere utile a qualcuno per innescare nuove questioni, senza dare nulla per scontato, anche quello che sembra naturale”.

“In qualunque caso si può simulare, tranne quando si tratta dei luoghi. Un uomo, in ogni condizione, deve potersi mettere in un angolo con la certezza che è il suo, almeno per un po’, o che nessuno lo manderà via di lì. Tutto il resto viene dopo”.
Questa frase, tratta da “ Un uomo temporaneo”, di Simone Perrotti (Frassinelli, 2015, NdA), ci introduce al quesito inerente all’attualità del concetto di Genius Loci ed al riconoscimento, da parte degli individui sociali, in una matrice identitaria legata al contesto ove si snoda la nostra esistenza.
Cosa accade nell’era digitale, ha ancora senso parlare di taluni concetti, per noi dapprima considerati imprescindibili, nell’esercizio della questione di progetto?

“Bella questa citazione alla quale permettimi però di contestare una piccola cosa: il senso della proprietà. Nessun luogo infatti dovrebbe essere di proprietà esclusiva di qualcuno, neanche a tempo determinato. Questa è un’utopia, lo so bene. Ma sono quasi certo che le cose funzionerebbero meglio. Ciò nonostante, per quanto riguarda il senso del Genius Loci nell’era digitale, la cosa che deve farci riflettere è la risposta della società contemporanea alla segregazione dovuta alla pandemia. Se all’inizio erano tutti “felici e connessi” nel mondo virtuale, dopo un po’ ci si è accorti della necessità della realtà. Il virtuale, il digitale non bastano più. Gli esseri umani sono animali sociali e sono dotati di un corpo materiale che ha bisogno di stabilire continue relazioni reali. Il progetto d’architettura, anche quello che usa strumenti digitali, non può non tener conto della realtà della realtà. Altrimenti non sarebbe un progetto d’architettura ma altro”.

Conosco il tuo designer preferito, sono io. Ahahahahah… Scherzi a parte, hai un designer che ami profondamente? Un Autore che ti appassioni in maniera irriducibile al punto da indurre i giovani allievi ad analizzarne i criteri d’intervento, per la costituzione di un loro personalissimo approccio di metodo nell’ambito di diverse discipline di progetto, differenti ambiti applicativi.
“Mi dispiace deluderti ma non ho un autore che preferisco o per il quale nutro una passione tale da portarlo o portarla come esempio esclusivo per i nostri giovani progettisti. Prediligo quelli che applicano la ricerca ai loro progetti, quelli che sono curiosi e che incuriosiscono, quelli corretti ma anche quelli scorretti (non tutti però). Il metodo, soprattutto se personale, è qualcosa che si costruisce con il tempo e quello che si può insegnare è solo l’importanza di operare con metodo, anche quando si decide di non tenerne conto”.

Il tuo oggetto preferito?
“Il libro. Amo i libri, non solo per il loro valore in termini di contenuti e quindi culturali, ma come oggetti in sé. L’oggetto libro mi piace tanto che compro libri anche in lingue che non riesco a leggere (giapponese, cinese, arabo, cirillico o di invenzione) solo per il piacere di toccarli, di sfogliarli, di annusarli, di sentirne il suono, di contemplarli e di collezionarli come oggetti. In particolare, mi piacciono i libri di grande formato e quelli di piccolissime dimensioni perché in questi estremi opposti si manifesta tutta l’oggettualità del libro”.

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