Approda su Rai Uno “Un cielo stellato sopra il ghetto di Roma”, l’ultima opera cinematografica di Giulio Base. Un film che elegge come strumento principe il cinema per la necessità di non dimenticare.
Il 27 gennaio scorso, in occasione della “Giornata della memoria” ha debuttato su RaiPlay l’ultimo film diretto da Giulio Base. Si tratta di una storia che parla di segreti, di un passato nascosto e di una misteriosa lettera.
“Un cielo stellato sopra il ghetto di Roma”, questo è il titolo del film, racconta la storia della Shoah attraverso la ricerca della verità da parte di un gruppo di ragazzi. Si tratta, sicuramente, di una strada innovativa di racconto che vuole coinvolgere proprio le nuove generazioni, trasferendo alle loro coscienze e riflessioni la più tragica lezione della storia dell’umanità.
Il progetto ha ricevuto il patrocinio della Comunità Ebraica di Roma. Il film è stato scritto da Giulio Base insieme a Israel Cesare Moscati, ideatore del soggetto, regista e sceneggiatore recentemente scomparso, e da Marco Beretta. Il film è stato girato a Roma, proprio nella splendida cornice del quartiere ebraico, del Lungotevere e dell’Isola Tiberina. Nel cast troviamo Bianca Panconi, Emma Matilda Lió, Daniele Rampello, Irene Vetere, Francesco Rodrigo, Marco Todisco, Aurora Cancian, Alessandra Celi, la partecipazione di Lucia Zotti, di Domenico Fortunato e un cameo interpretato dallo stesso Giulio Base.
Attore e regista per il cinema e la televisione, Base affronta con maestria una storia difficile da raccontare senza scivolare mai sui luoghi comuni dell’emozione a tutti i costi. Abbiamo voluto parlarne con lui per meglio capire le sue scelte e alcuni aspetti del suo film.
Trent’anni dietro la
macchina da presa. Da “Crack” del 1991 a “Un cielo stellato sopra
il ghetto di Roma”, il tuo ultimo lavoro, coraggio, pulsione e coerenza
rappresentano un percorso articolato che ti ha visto lavorare sia per il cinema
sia per la televisione.
“Ho avuto, sicuramente, in questi anni la stessa pulsione per cercare di fare al meglio quello che mi era affidato. Non sempre è stato possibile mantenere la stessa cifra stilistica ma, a volte, anche la mancanza di stile può essere lo stile stesso. Ho sempre considerato la possibilità di girare un film come un dono, a volte un miracolo. Capita spesso, nel nostro mestiere, di chiedersi quando “potrò fare il prossimo film”, viste le tante difficoltà che ti siano affidati non solo la regia ma, contestualmente, i capitali investiti nel progetto che spesso sono ingenti. Posso affermare che, in alcune occasioni, sia stato più difficile che in altre ma non è mai mancata la mia pulsione e, nel tempo, ho sempre cercato di alzare l’asticella e coniugare il mio linguaggio cinematografico con l’arte, o meglio, con un artigianato di alto livello”.
Nel tempo, come
regista per il cinema, hai fatto una serie di scelte coraggiose a partire da
quella di lavorare su un testo di Piero Chiara o con il tuo “Il banchiere
anarchico”. In questo caso, con “Un cielo stellato sopra il
ghetto di Roma”, il tuo ultimo film, hai deciso di affidare al puro linguaggio
cinematografico quello che molti tentano, più facilmente, di affidare al
documentario.
“Talvolta le scelte non sono volontarie. Nel caso di Piero Chiara, un autore che ho sempre amato moltissimo e che continuo a leggere, la fortuna mi ha portato a essere il destinatario della possibilità di raccontare una storia. Parlando invece di “Un cielo stellato sopra il ghetto di Roma”, quando mi è stata affidata questa storia la mia prima reazione è stata quella di percepire l’onore che era stato rivolto alla mia persona perché ha rappresentato la fiducia nei miei confronti.
L’argomento, la Shoah, è ancora oggi scottante, percepito sulla pelle di persone ancora vive ma, soprattutto, vivo nei ricordi di chi ha avuto familiari, parenti, amici o conoscenti direttamente coinvolti in questa tragica pagina della storia dell’uomo e, più in generale, di tutti noi, anche se non ne siamo stati personalmente coinvolti proprio perché ogni uomo è un nostro fratello. C’è stata, subito dopo, la necessità dello studio e la responsabilità di fare le cose giuste. La giustezza, questo termine ebraico che ben spiega il mio sentimento, mi ha portato a studiare documenti e storie e a mettermi in maniera oggettiva a osservare senza la necessità di prendere posizione o di dover fare lo slalom tra dialoghi, volti e stati d’animo. È necessario, quando vuoi raccontare una storia, essere giusti e spero, soprattutto, in questo caso, di esserci riuscito. Le prime reazioni, da parte della stampa, sono state tutte positive e ora aspettiamo il giudizio del grande pubblico che lo vedrà il 6 febbraio su Rai 1. Dalle prime avvisaglie sembra che il mio lavoro funzioni”.
A mio giudizio,
emerge la tua volontà di non voler emozionare a tutti i costi e in maniera
strumentale, come spesso la cinematografia anche nostrana, decide di fare. Le
inquadrature scelte, i tuoi campi a due o quelli larghi che lasciavano “aria”
attorno ai protagonisti, denotano la tua volontà di non creare un’opera
lacrimosa.
“Era necessario prendere una certa distanza, un certo distacco. Ho cercato di evitare il pericolo, come hai detto tu, di dare al pubblico un’opera lacrimosa o smielata, da fiction per intenderci. Anche nel montaggio del film ho preferito, quando è stato possibile, preferire i piani sequenza senza spezzarli arrivando anche a non “montare”. Anche per quello che riguarda la musica presente del film, si tratta esclusivamente di quella diegetica ossia che già è in scena. Nella scena dell’abbraccio finale, ad esempio, ho evitato di usarla in maniera strumentale e quindi di “struggere” e “torchiare” lo spettatore nell’enfasi della commozione usando invece il silenzio all’interno del quale è possibile per lo spettatore immaginare, pensare, riflettere l’emozione dentro di sé”.
Parliamo proprio dei
silenzi che, in questo caso, aumentano l’attenzione dello spettatore.
“Nei primi cinque minuti del film, per esempio, non c’è nemmeno una parola. È il cinema puro, il cinema che amo, quello in cui la parola potrebbe essere anche inutile. Certo, si è trattato di una scelta coraggiosa visto che per il prodotto è oggi destinato ad una visione televisiva. Un mio vecchio maestro di televisione, Ettore Bernabei, che ho conosciuto molti anni fa lavorando con la “Lux Vide”, mi diceva “ricordati che la televisione è soprattutto radio”. All’inizio non avevo ben compreso cosa volesse dire. Poi mi sono reso conto che la gente non sempre “guarda” la televisione, più spesso la “sente” mentre cucina, mangia o fa altre cose.
La mia scelta, quella di usare i silenzi, costringe invece a guardare, non solo ad ascoltare. Il film era stato pensato originariamente per il cinema, per la sala cinematografica. Trattandosi di una storia per ragazzi e interpretata da ragazzi era destinata al pubblico che normalmente riempie le sale. La sua visione in televisione potrebbe forse essere penalizzata da alcune scelte più cinematografiche ma anche in questo caso il giudizio andrà al pubblico”.
A proposito dei tuoi
protagonisti, avete avuto delle difficoltà a trovare questa squadra di giovani
talenti?
“Teresa Razzauti, la mia casting director, ha fatto una ricerca pazzesca, tirando fuori una rosa di ragazzi molto interessanti. Dalla lettura della stesura finale della sceneggiatura sapevo che sarebbe stato complicato trovare i sei protagonisti oltre alla decina di coprotagonisti che ruotano attorno a loro. In parte siamo stati fortunati, ma l’istinto ci ha guidato verso la parte giusta. Si tratta di piccoli professionisti che hanno deciso di affidarsi e che, elemento importante, hanno rinunciato a se stessi lavorando per creare un’opera collettiva, dimenticando il proprio egocentrismo”.
Quando è arrivato il
momento del montaggio, hai dovuto cambiare molto delle scelte fatte nella fase
di riprese o di quanto ti eri immaginato nella fase di preparazione?
“Non succede quasi mai di essere veramente soddisfatti. Nella mia vita ho avuto l’onore di essere diretto da Ridley Scott, il regista del film che io amo di più, “Blade Runner” e, in un’occasione, mi disse “quando raccogli il 75% di quello che avevi in mente, consideralo un giorno fortunato”. Detto da Scott, un regista che può permettersi, a livello di mezzi e di denaro, quello che vuole è molto significativo. Sono abbastanza soddisfatto. Il cinema è l’arte del possibile e spesso quanto ti aspetti “meno”, viene fuori “di più”. Il nostro film non aveva mezzi illimitati ma penso che, grazie all’esperienza e all’ingegno, siamo evitati pericolosi scivoloni, come per la realizzazione delle scene “storiche”, ossia quelle ambientate nella Roma del 1943”.
In questo film c’è un
tuo cameo. In quasi tutti i film che hai diretto, non rinunci a “passare
dall’altra parte” della macchina da presa, stante anche il dualismo del tuo
ruolo all’interno del mondo del cinema, perché sei sia regista sia attore. Com’è
nato il piccolo ruolo che hai interpretato?
“Io farei sempre l’attore, perché mi piace veramente tanto e mi diverto, anche nei miei film, quelli di regia intendo, e spero sempre che arrivi qualcuno che mi dica “guarda che questo ruolo sarebbe adatto a te”. Anche in questo caso è stata una richiesta del produttore, che mi ha proposto di interpretare questo piccolo ruolo. Lo stimolo è stato questo, senza vanità e senza voler peccare di protagonismo. In altre occasioni, non succede che qualcuno me lo proponga e mi occupo del mio ruolo, già impegnativo, di regista”.
“Un cielo stellato sopra
il ghetto di Roma”, da dove viene questo titolo?
“Il titolo è di Israel Cesare Moscati, l’autore del soggetto e, con me e Marco Beretta, della sceneggiatura. Israel ci ha, purtroppo, lasciato qualche settimana prima dell’inizio delle riprese. E’ a lui la prima dedica alla fine del film, “una stella tra le stelle”. Ritengo che abbia voluto rappresentare le stelle del firmamento, le stelle di David, le tante stelle che rappresentano questa storia, il mondo della cultura e della tradizione ebraica e la comunità ebraica più antica d’Europa e seconda del mondo, che è quella di Roma”.
E’ stato definito, da
più parti, che il tuo è un film di formazione. Penso che sia, soprattutto, un
film di formazione sull’esercizio della memoria.
“Si, concordo. Dentro questo film c’è la necessità dell’esercizio della memoria e di collaborazione, di cooperazione, di messa in moto di volontà, di cultura, di approfondimento. Dentro questo film c’è una piccola grande storia che appartiene a tutti noi, la necessità di raccontarla e di continuare a farla raccontare”.
L’appuntamento con Giulio Base e “Una notte sotto il cielo stellato di Roma” è il 6 febbraio su Rai 1 alle 22:50.
Roberto Greco