Inapp: 189.251 contratti attivati nel primo semestre 2021, ma solo uno su tre è “rosa”. Il presidente Fadda: “Questo incide su produttività e competitività, scoraggia gli investimenti e crea disuguaglianze”
Dei 101mila nuovi disoccupati che ci ha lasciato in eredità la pandemia, 99mila sono donne. Il dato, ancora provvisorio, reso noto dall’Istat, è fermo allo scorso febbraio. Ci sono quindi buone ragioni per pensare che il quadro sia ben più disastroso di quello dipinto dall’Istituto nazionale di Statistica.
Eppure, da più fronti si levano voci che inneggiano alla ripresa. Ma di che tipo di ripresa parliamo? Qual è lo scenario che ci si presenterà davanti nel post-pandemia? Per tirare le somme è ancora presto, ma guardando ai primi numeri, un’idea piuttosto chiara possiamo già farcela.
Se la pandemia ha lasciato indietro le donne, la famigerata “ripresa” non sembra essere da meno. La crisi economica scaturita dall’avanzare del Covid ha ampliato il gap uomini-donne nel mondo del lavoro, la ripartenza ha allargato la forbice. Luoghi comuni? Magari.
A certificare l’avanzare di una “nuova normalità” in cui, ancora una volta, gli unici protagonisti del mondo del lavoro sono gli uomini, è il Gender Policies Report dell’Inapp. Nei primi sei mesi del 2021 in Italia sono stati attivati poco più di 3 milioni e 300 mila nuovi contratti di lavoro: di questi 2 milioni a uomini e un milione e 3 a donne (il 39% del totale, dati Inps-Osservatorio sul precariato 2021). Ma non solo: il 60% dei contratti delle donne è precario e sottostimato, il 50% di tutte le nuove assunzioni è a tempo parziale (per gli uomini la percentuale è del 26%). E ancora: delle 267.775 trasformazioni di contatto da determinato a indeterminato, solo il 38% riguarda le donne.
E in Sicilia? Neanche la nostra regione sembra essere un’Isola per donne. Nei primo semestre 2021 nell’Isola sono stati attivati 189.251 nuovi contratti, 130 mila a uomini e appena 59 mila a donne (il 31%). Per quanto riguarda le trasformazioni a tempo indeterminato 24.813 sono state destinate a uomini e 10.487 a donne. La percentuale di contratti part-time per le donne è del 73% contro il 35% degli uomini. Una disfatta.
Il mondo del lavoro riparte, quindi, ma senza le donne. Costrette da un lato alla precarietà che deriva da contratti a tempo determinato (che raramente, come abbiamo visto, si “evolvono” in indeterminato, o quantomeno non nella misura in cui questo avviene per gli uomini), e dall’altra a retribuzioni minime derivanti dal part-time. Oltretutto, il report Inapp fa riferimento al part time “involontario”, cioè quella “forma di lavoro a tempo parziale non determinata dalla volontà della lavoratrice ma proposta come condizione contrattuale di accesso al lavoro”.
Donne “comparse” quindi, cui spetta il triste primato di “forme di lavoro atipiche e discontinue”.
Il rischio, più che concreto, è che si vada verso “una ripresa dell’occupazione non strutturale, caratterizzata da un aumento della povertà lavorativa e dall’ampliamento del gap tra uomini e donne”. Ancora una volta.
Sebastiano Fadda (Inapp): “Pnrr? Interventi che rischiano di agire sul sintomo e non sulle cause”
Nel primo semestre 2021 un contratto su tre attivati in Sicilia ha riguardato le donne (59.230). Di questi, il 72,9% è part-time: quale lettura possiamo dare di questo dato?
“La ripresa che ha seguito l’attenuazione dei vincoli pandemici appare generalmente piuttosto robusta se misurata in termini di valore aggiunto, anche se non uniformemente distribuita dal punto di vista territoriale e alquanto squilibrata dal punto di vista settoriale. Lo stesso si può dire in termini di volume di occupazione. Il punto debole sta nella qualità dell’occupazione: troppi rapporti di lavoro a tempo determinato e troppo part-time. In questo contesto la Sicilia mostra da un lato la più bassa quota di attivazioni femminili sul totale (assieme alla Campania e alla Basilicata) e dall’altro una quota tra le più alte di part time tra le attivazioni femminili, mentre si colloca ai primi posti per quota di tempo indeterminato sul totale 17,7% contro la media nazionale del 14,5). Appare quindi evidente il particolare ruolo marginale della componente femminile della forza lavoro in questa regione, con tutte le conseguenze negative proprie della diseguaglianza nella prospettiva di genere”.
Anche a livello nazionale i dati ci restituiscono un quadro di instabilità occupazionale?
“Si. La bassa quota di posizioni lavorative a tempo indeterminato e l’alta quota di lavoro part-time dimostrano da un lato la grande esitazione delle imprese ad impegnarsi in piani industriali di solide prospettive temporali e dall’altro la spiccata propensione ad affidarsi a bassi livelli retributivi anziché alla crescita della produttività oraria per contenere il costo del lavoro per unità di prodotto. Questa tendenza è dannosa nel medio-lungo termine perché determina limiti all’accumulazione di abilità e competenze dei lavoratori, scoraggia gli investimenti in innovazione, accentua la diseguaglianza nella distribuzione del reddito, sia funzionale che personale. Tutto questo nuoce nel medio-lungo termine alla crescita e alla competitività internazionale. Inoltre, le condizioni di precarietà che tale situazione impone a larga parte della popolazione sono all’origine di una lunga serie di altri fenomeni negativi che caratterizzano la nostra società contemporanea, dalla crisi demografica alle varie forme di emarginazione sociale”.
Il Pnrr colmerà il gap occupazionale uomo-donna?
“Dal Pnrr ci si aspetta una ricaduta positiva in termini occupazionali. Nel Piano si stima un aumento dell’occupazione femminile del 3,7% ed un impatto del 5,5% nel Mezzogiorno. Ma la concentrazione di investimenti su settori a prevalente occupazione maschile (infrastrutture e digitali) rischia di accentuare i gap di genere esistenti. Per compensare questa tendenza, il Pnrr ha previsto per la fase di esecuzione dei progetti, una specifica clausola di ‘condizionalità’, una quota del 30% alle assunzioni di giovani e donne derivante proprio da quei finanziamenti. Bisognerà monitorare in che modo questa previsione sarà realizzata per vedere se effettivamente il Pnrr riesca nell’obiettivo da Lei citato. Tuttavia, occorre ricordare che interventi del genere agiscono sul sintomo e non sulle cause del fenomeno della diseguaglianza di genere. Sono necessari interventi di carattere strutturale e di maggiore profondità per rimuovere le cause che penalizzano la presenza della componente femminile nel mondo del lavoro”.
Cosa ne pensa della legge sulla parità salariale e dell’introduzione della certificazione sulla parità di genere? Stiamo andando nella direzione giusta?
“Premetto che il principio di parità salariale di genere (per uguale mansione) è già garantito per norma e quindi quello che la legge può fare è dare strumenti per contrastare la violazione di questa norma, che spesso avviene attraverso diversi espedienti. La legge 162 pertanto rappresenta un passaggio importante nella direzione della trasparenza dei dati retributivi per le imprese oltre i 50 dipendenti e dà una rilevanza istituzionale alle politiche di contrasto alla discriminazione retributiva. Diverso è il tema della certificazione di parità di genere, che, invece, attiene al versante delle misure premiali e va nella direzione di promuovere una cultura organizzativa e una responsabilità dell’impresa che abbia un legame diretto con l’accesso ai fondi pubblici. Sono misure complementari che agiscono su due livelli diversi, di certo auspicabili, ma è importante non confondere l’aspetto di obbligo di norma alla parità salariale dal versante dell’accountability delle organizzazioni”.
Inapp, ruolo e funzioni
L’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (Inapp) è un ente pubblico di ricerca, che svolge analisi, monitoraggio e valutazione delle politiche del lavoro e dei servizi per il lavoro, delle politiche dell’istruzione e della formazione, delle politiche sociali e di tutte quelle politiche pubbliche che hanno effetti sul mercato del lavoro.
Il suo ruolo strategico nel nuovo sistema di governance delle politiche sociali e del lavoro dell’Italia è stabilito dal Decreto Legislativo 14 settembre 2015, n. 150.
L’Inapp collabora con le istituzioni europee e fa parte del Sistema statistico nazionale (Sistan) all’interno del quale, insieme a Istat, è l’unico ente di informazione statistica.
L’attività di ricerca dell’Istituto è volta a studiare fenomeni d’importanza strategica per la collettività, per fornire informazioni, conoscenza e strumenti utili al policymaker per compiere le proprie scelte e ai cittadini per valutare l’impatto di tali scelte.
di Eleonora Fichera e Patrizia Penna