Al Quotidiano di Sicilia interviene Lia Sava, procuratore generale presso la Corte d’appello di Palermo. “Le Forze dell’Ordine e la magistratura requirente sono da sempre al fianco di chi denuncia”
PALERMO – Estorsioni e vessazione degli imprenditori, qual è la situazione attuale? A questo proposito interviene al QdS Lia Sava, procuratore generale presso la Corte d’Appello di Palermo, il cui distretto comprende sei circondari: Palermo, Trapani, Marsala, Termini Imerese, Sciacca e Agrigento.
Procuratrice, anche alla luce delle risultanze delle indagini di questo ultimo periodo, qual è la situazione attuale relativamente al fenomeno del “pizzo” a Palermo?
“Il ‘pizzo’ si continua a pagare anche se le pregevoli e serrate indagini della D.D.A. di Palermo aggrediscono il fenomeno, contrastandolo con sapienza investigativa di assoluto pregio. E proprio in tali articolati contesti investigativi, in alcuni casi, si è riscontrato che ‘la messa a posto’ viene richiesta dallo stesso esercente l’attività economica, quasi fosse ‘un costo di impresa’ per mettersi tranquillo. Se da un lato, dunque, i risultati dei processi e le condanne definitive documentano la competenza delle Forze dell’Ordine e della magistratura nel contrasto alla piaga del racket, pare, almeno a tratti, affievolirsi lo slancio etico che dovrebbe imporre la denuncia di ogni richiesta di pizzo e determinare, ad un tempo, il rifiuto di qualsivoglia forma di compromesso con le famiglie mafiose che, invece, proseguono nella sciagurata attività di controllo di vaste zone dei nostri territori. Il pagamento del ‘pizzo’, dunque, anche nelle forme dell’imposizione di forniture e di manodopera, costituisce uno degli strumenti privilegiati che Cosa Nostra utilizza per infiltrarsi nell’economia sana togliendole ossigeno, ancora oggi come trent’anni fa”.
Siamo ancora in presenza di un senso di sfiducia nei confronti dello Stato?
“Può utilizzarsi l’espressione ‘sfiducia nello Stato’, unitamente all’espressione ‘mancanza di senso etico’ da parte di chi si sottomette alle richieste delle cosche ma io credo che si tratti anche di una grave forma di miopia. E mi spiego. Pagare il ‘pizzo’, rinunciare al valore sacrosanto della ‘libertà di impresa’ per ‘mettersi tranquilli’ determina effetti devastanti. In chiave microeconomica per lo stesso imprenditore, perché la sottomissione al racket può condurre alla completa infiltrazione mafiosa nell’attività con la conseguenza che il commerciante di turno diventa una mera testa di legno delle cosche. Peraltro, nella sicura certezza di pagare, prima o poi, il prezzo alla giustizia perché l’attività investigativa e l’estrema professionalità delle forze dell’ordine e della magistratura arrivano quasi sempre a ricostruire e colpire tali condotte criminose. E ciò determina, conseguentemente, anche uno stress emotivo non certo indifferente per chi si mette nelle condizioni di viverlo. Ma vi è anche un effetto macroeconomico. L’imposizione del pizzo e l’adesione alle richieste tolgono ossigeno alla possibilità di crescita della nostra economia. I costi di impresa dell’illegalità, se sommati, raggiungono livelli allarmanti. Diversi anni fa, precisamente nel 2008, la Fondazione Rocco Chinnici curò la pubblicazione un testo frutto di una pregevole ricerca del Professore Antonio La Spina dal titolo ‘I costi dell’illegalità. Mafia ed estorsioni in Sicilia’ nel cui ambito questi costi vennero analizzati nelle loro proporzioni allarmanti. Le analisi più recenti, peraltro spalmate su attività di ricerche universitarie realizzate in tutto il territorio nazionale, dimostrano che l’incidenza dei costi dell’illegalità sull’economia sana del nostro paese, rispetto a quindici anni fa, non è certo diminuita. Basti pensare che uno studio di Confcommercio, del 2022, calcolava i costi dell’illegalità per un ammontare complessivo di 1,2 miliardi di euro, dei quali una consistente fetta sarebbe da ricondurre proprio al settore del racket”.
L’eredità di Libero Grassi, ma anche quella di tutti gli altri imprenditori che hanno denunciato, sembra faccia fatica a essere somatizzata dalla classe imprenditoriale, soprattutto quella più piccola e più a contatto con il controllo del territorio operato dalla criminalità organizzata. Oltre agli strumenti repressivi, quali possono essere gli strumenti di educazione preventiva?
“L’ottica repressiva, ovviamente, non è sufficiente a debellare il fenomeno del ‘pizzo’. Credo sarebbe particolarmente utile, e mi ricollego a quanto ho detto sopra, far comprendere a chiare lettere e senza ambiguità, con iniziative di carattere divulgativo di dati statistici, che arrendersi alle richieste estorsive, in qualsiasi forma realizzate, incide pesantemente sul mercato, distorcendo i meccanismi della libera concorrenza con la crescente difficoltà a far sviluppare in modo lineare e coerente i processi economici. In questa direzione, devono continuare ad operare, da un lato, gli imprenditori onesti, che sono comunque numerosi, determinati a non accettare compromessi con il malaffare e, dall’altro, le associazioni di categoria che devono proseguire nelle loro pazienti e coraggiose attività di sostegno e sensibilizzazione. Dobbiamo insistere, dunque, nell’avere il comune obiettivo della tessitura di una rete di valori e di regole, prima di tutto etiche, che proteggano le imprese e le attività economiche autonome in generale, anche le più piccole, dalla pervicacia del crimine organizzato. Le forze dell’Ordine e la magistratura requirente di questo Distretto, dal canto loro, sono da sempre al fianco di chi denuncia e sviluppano progressivamente strategie sempre più affinate al contrasto efficace non solo all’illegalità esplicita ma anche verso quei perniciosi processi di commistione fra sfera legale ed illegale in ambito economico. Con ciò proseguendo ad onorare il sacrificio di uomini onesti e coraggiosi come Libero Grassi”.