Il tribunale di Sorveglianza di Catania ha disposto la scarcerazione di Giampiero Salvo, esponente di vertice del clan Cappello.
“Preso atto delle gravi patologie da cui è affetto il condannato, considerato che allo stato non sembrano sussistere residui di pericolosità sociale, ritiene questo tribunale che non si ravvedono ragioni per le quali ritenere necessaria l’applicazione di un presidio detentivo”. È con queste parole che il tribunale di Sorveglianza di Catania ha disposto la scarcerazione di Giampiero Salvo, esponente di vertice del clan Cappello già condannato definitivamente all’ergastolo per la strage di Catenanuova.
La strage e la condanna
Salvo, oggi 47enne, venne arrestato e poi giudicato per l’agguato compiuto nella cittadina dell’Ennese nel luglio del 2008, quando a perdere la vita fu Salvatore Prestifilippo Cirimbolo e altre cinque persone rimasero ferite. Un assalto con mitragliette e pistole in mano a cui Salvo partecipò insieme ad altri e che scaturì dalla volontà dei Cappello di punire la mancata riconoscenza da parte della vittima che, dopo avere ottenuto appoggio dall’avvicinamento alla cosca catanese, avrebbe avuto intenzione di rilanciare le proprie quote all’interno di Cosa nostra ennese.
La strage, avvenuta in piena notte nei pressi di un bar, rappresentò uno degli episodi di criminalità organizzata più cruenti della fine degli anni Duemila in Sicilia. Poco meno di otto anni dopo per Salvo arrivò la prima condanna: era febbraio del 2016, quando la Corte d’assise di Caltanissetta decretò la colpevolezza del rampollo della cosca mafiosa catanese, sin da giovane capace di scalare i vertici del gruppo, forte del legame di sangue con il padre Pippo.
Tra l’estate del 2017 e e la fine della primavera del 2018, furono prima la Corte d’assise d’appello di Caltanissetta e poi la Cassazione a confermare l’ergastolo con isolamento diurno per un anno.
Il passaggio ai domiciliari
L’espiazione della pena, tuttavia, è stata condizionata sin da subito dal peggioramento delle condizioni di salute di Salvo. Ad agosto 2018, due mesi dopo il pronunciamento della Cassazione, il legale del detenuto, l’avvocato Giorgio Antoci, ottenne dal tribunale di Sorveglianza il differimento della pena. I giudici in quel caso disposero il passaggio di Salvo dal carcere ai domiciliari, una condizione che – considerata la situazione clinica del detenuto – si è protratta di anno in anno.
Ravvedimento, ma senza collaborazione
A incidere nella decisione di presentare istanza di rinvio dell’esecuzione della pena – in altri termini di concreta messa in libertà – è stato però anche un altro fattore. Salvo, nel corso degli anni, ha intrapreso un percorso di ravvedimento culminato, qualche mese fa, nella richiesta di prendere parte a progetti di sensibilizzazione nei confronti dei giovani. Con l’obiettivo di sottolineare l’importanza di sottrarsi agli ambienti criminali e di credere nella possibilità di fare scelte diverse da quelle che spesso i contesti in cui si vive sembrano imporre.
Nell’ordinanza che ha disposto il ritorno in libertà di Salvo si fa riferimento alle relazioni positive redatte dall’Ufficio esecuzione penale esterna. “Deve essere valorizzato il percorso di rivisitazione critica sul proprio operato posto in essere da Salvo – si legge nel provvedimento – che oltre a riconoscere le proprie responsabilità ha espresso al presidente del tribunale dei Minori di Catania la propria disponibilità a collaborare con lo stesso al fine di adoperarsi nei confronti di minori autori di reato, raccontando la sua esperienza delinquenziale e indurli così sia a una riflessione critica sui comportamenti devianti attuati sia alla necessità di intraprendere un serio percorso di legalità lontano da ambienti criminali”.
Residua pericolosità
L’anno scorso, un’istanza simile a quella che è stata accolta a inizio mese era stata rigettata dal tribunale di Sorveglianza. In seguito a quella decisione, il legale di Salvo ha presentato ricorso in Cassazione e la Suprema corte ha disposto una nuova valutazione, sottolineando la necessità di specificare quali fossero i motivi che, considerata la patologia debilitante che aveva colpito l’uomo, ne giustificavano comunque lo stato di detenzione.
“Il provvedimento si fondava esclusivamente sulla presunta residua pericolosità del condannato come desunta dalla gravità dei reati commessi, dalle note della questura di Catania e della Dda del capoluogo etneo, senza tenere conto, oltre che delle condizioni di salute del detenuto e senza concretamente indicare le ragioni per le quali è stata ritenuta prevalente, rispetto alla tutela della salute, l’esigenza di contenere la residua pericolosità sociale con un presidio detentivo”, ha scritto il giudice Nunzio Corsaro riassumendo i motivi del ricorso.
Il nuovo esame ha portato a ribaltare la valutazione su Salvo. “Sul punto della pericolosità si osserva che, come ammesso già con precedente ordinanza del 2022 dello stesso tribunale, la capacità delinquenziale del reo appare enormemente compromessa dalle precarie condizioni di salute dello stesso e che non costituisce indice di pericolosità il mancato risarcimento del danno alle persone offese”, si legge nell’ordinanza dei giorni scorsi.
Lo stesso giudizio è stato dato al fatto che Salvo non abbia mai voluto collaborare ufficialmente con la giustizia e alla possibilità che il ritorno in libertà possa portare a una ripresa dei contatti con gli esponenti del clan. Su quest’ultimo aspetto, il tribunale ha specificato che dagli organi inquirenti non è arrivato “alcun elemento a sostegno” di tale ipotesi.