Pensioni, da Quota 100 un flop dopo l’altro

Pensioni, da Quota 100 un flop dopo l’altro: scelte politiche insostenibili costate 25,5 miliardi

Pensioni, da Quota 100 un flop dopo l’altro: scelte politiche insostenibili costate 25,5 miliardi

Paola Giordano e Patrizia Penna  |
mercoledì 02 Agosto 2023

Lo certifica la Ragioneria generale dello Stato tracciando un bilancio dal 2019 ad oggi. Spesa sfonda i 320 miliardi

25,5 miliardi di euro di oneri e un incremento sul debito di 1,3 punti di PIL a fine 2022: questo è il triste bilancio delle misure che la nostra politica ha adottato negli ultimi anni per tentare di riformare il sistema pensionistico. Tentativi che, come certifica la Ragioneria Generale dello Stato – organo afferente al Ministero dell’Economia e delle Finanze che ha come principale obiettivo garantire la corretta programmazione e la rigorosa gestione delle risorse pubbliche – non si sono rilevati finanziariamente sostenibili.

Prima Quota 100, partorita dal primo governo Conte (D.L. n. 4/2019, convertito con modificazioni dalla Legge n. 26/2918), poi Quota 102 rimodulata nella Legge di Bilancio 2022 dal governo Conte II e non ultimo Quota 103, introdotta dall’attuale governo Meloni che sta valutando in questi giorni la possibilità di prorogarla nella prossima Legge di Bilancio, rappresentano una deroga temporanea alla struttura delineata dalla cosiddetta Legge Fornero (D.L. n. 201/2011). Deroga che se diventasse permanente, secondo le previsioni contenute nel rapporto “Le tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario” elaborato dalla Ragioneria dello Stato, da qui al 2070 “pur ipotizzando l’adeguamento del requisito anagrafico agli incrementi della speranza di vita, produrrebbe una maggiore incidenza della spesa in rapporto al PIL valutabile in 8,4 punti percentuali rispetto ai risultati della legislazione vigente”.

Con l’introduzione strutturale di un canale di accesso al pensionamento anticipato con almeno 41 anni di anzianità contributiva e almeno 62 anni di età (incrementata biennalmente in funzione della variazione della speranza di vita), la Ragioneria dello Stato evidenzia che “il picco dell’incidenza della spesa pensionistica rispetto al PIL, a parte lo shock del 2020 dovuto alla crisi pandemica, verrebbe raggiunto nel 2040, due anni prima rispetto al valore di massimo previsto a legislazione vigente e con un valore di 17,3 per cento”.

Interventi come questo, dunque, “peggiorerebbero in maniera sostanziale l’equilibrio finanziario del sistema pensionistico e la sostenibilità delle finanze pubbliche e del debito pubblico, in particolare nel periodo temporale (per i prossimi venti/venticinque anni) in cui già molto significativi risultano a normativa vigente gli effetti della transizione demografica negativa”.

L’analisi del rapporto fra spesa pensionistica e PIL, illustrata nel documento stilato dalla Ragioneria dello Stato, rileva che a partire dal 2019 e fino al 2022, essa è tornata ad aumentare con un picco, pari al 16,9 per cento del PIL nel 2020, per poi ripiegare su un livello pari al 15,6 per cento nel 2022, valore che è 0,4 punti percentuali di PIL superiore al dato del 2018. Tale incremento è dovuto sì all’impatto dell’emergenza sanitaria che ha colpito l’Italia a partire da febbraio 2020, ma “è condizionato, inoltre, dall’esplicarsi delle misure in ambito previdenziale contenute nel D.L. 4/2019 convertito dalla L. 26/2019 secondo le quali, in via sperimentale, per coloro che maturano i requisiti nel periodo 2019-2021, è possibile lasciare il lavoro e pensionarsi in presenza di un’anzianità contributiva di almeno 38 anni e di un’età anagrafica non inferiore a 62 anni (Quota 100) unitamente alla riduzione dei requisiti di accesso al pensionamento anticipato indipendentemente dall’età anagrafica per il mancato adeguamento nel 2019 di tali requisiti all’incremento della speranza di vita” e dagli “effetti previsti dalle norme contenute nelle Leggi di Bilancio 2022 e 2023 che consentono, rispettivamente, di accedere al pensionamento con una età minima di 62 anni ed una anzianità contributiva minima di 38 anni (Quota 102) per chi matura tali requisiti nel 2022 e con una età minima di 62 anni ed una anzianità contributiva minima di 41 anni (Quota 103) per chi matura tali requisiti nel 2023”.

Nel biennio 2023-2024, la spesa per pensioni infatti “cresce significativamente portandosi al 16,2 per cento del PIL. Le previsioni scontano, inter alia, gli effetti della elevata indicizzazione delle prestazioni imputabili al notevole incremento, del tasso di inflazione registrato nel 2022 e previsto per l’anno 2023”.
Dell’impennata che la spesa pensionistica avrebbe subendo quest’anno a causa dell’inflazione (in base alla legge del 27 dicembre 2019 n. 160) e della correlata necessità che il governo aveva di reperire in tempi stretti ben 23,5 miliardi abbiamo parlato nell’inchiesta pubblicata lo scorso 13 ottobre dall’emblematico titolo “Bomba pensioni in mano alla Meloni”. “Nel 2023 – si legge sulla Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza del 28 settembre 2022 – l’aggiustamento all’elevata inflazione registrato quest’anno farà salire la spesa pensionistica (+7,9 per cento)”. Tale incremento, tradotto in euro, vuol dire che dai 297,3 miliardi del 2022 – cifra che già rispetto al 2021 ha registrato un aumento che sfiorava il 4 per cento – si è passati ai 320,8 del 2023.

Secondo le previsioni riportate dalla Ragioneria il rapporto spesa pensionistica/Pil tenderà a stabilizzarsi fino al 2029 per poi aumentare velocemente fino a raggiungere il picco relativo del 17 per cento nel 2042: “Nella parte centrale del periodo di previsione, si assiste all’incremento del rapporto fra numero di pensioni e numero di occupati indotto dalla transizione demografica, il quale è solo in parte compensato dall’innalzamento dei requisiti minimi di accesso al pensionamento”.

Bisognerà aspettare la seconda parte dell’orizzonte di previsione (2043-2070) per registrare una inversione di rotta: la spesa si attesterà al livello del 16,1 per cento del PIL nel 2050 e al 14,1 per cento nel 2070. “La rapida riduzione del rapporto fra spesa pensionistica e PIL è determinata dall’applicazione generalizzata del calcolo contributivo che si accompagna alla stabilizzazione, e successiva inversione di tendenza, del rapporto fra numero di pensioni e numero di occupati. Tale andamento si spiega, da un lato, con la progressiva uscita delle generazioni del baby boom e, dall’altro, con l’entrata a pieno regime del sistema contributivo e con l’operare dei meccanismi di stabilizzazione previsti dal sistema pensionistico italiano, espressamente disegnati per garantire la sostenibilità finanziaria del sistema insieme all’adeguatezza delle prestazioni, i quali prevedono l’adeguamento automatico dei requisiti minimi di pensionamento e dei coefficienti di trasformazione in funzione della speranza di vita”.
Oltre ai 25,5 miliardi di oneri sborsati in quattro anni di applicazione del D.L. n. 4/2019 – di cui uno, il 2019, parziale in quanto le disposizioni sono state applicate solo per una parte dell’anno – c’è, poi, una spada di Damocle che grava sulla sostenibilità del sistema pensionistico ed è quella che riguarda la “toppa” che lo Stato è costretto a mettere ogni anno in bilancio per coprire il gap tra le entrate contributive e il totale degli assegni erogati al personale in quiescenza: nell’inchiesta “Pensioni, sistema insostenibile: lo Stato mette di tasca propria 75 su 312 miliardi di spesa” pubblicata il 9 novembre 2022, avevamo scoperchiato, numeri Inps alla mano, un vaso di Pandora.

L’importo lordo delle pensioni complessivamente erogate nel 2021 ha sfiorato quota 312 miliardi di euro. Le entrate contributive tra il 2020 e il 2021 sono aumentate del 5,2 per cento, passando da 225 a 237 miliardi di euro. Una buona notizia si dirà ma i conti non tornano: se sono stati incassati 237 miliardi e ne sono stati spesi 312, mancano all’appello 75 miliardi. Soldi che dovevano essere e sono stati sborsati. Dallo Stato che, per assicurare gli assegni ad un parterre sempre più “affollato” – al 31 dicembre 2021 i pensionati erano oltre 16 milioni – ha dovuto mettere mano al portafogli.
Morale della favola? Un sistema che spende più di quello che introita però non è e non può essere sostenibile.

Flessibilità pensionistica e post Fornero: confronto politico rinviato a settembre

Si trascinano un po’ stancamente i tavoli di confronto al ministero del Lavoro tra l’Osservatorio per il monitoraggio e la valutazione dell’impatto della spesa previdenziale e le parti sociali sulle pensioni.
Dopo il round su garanzia giovani, conclusosi a inizio mese con una ricognizione generale sul futuro previdenziale degli under 35 senza alcun focus sulle risorse con cui mettere mano alla riforma, qualche giorno fa è toccato al tema, caldo, della flessibilità pensionistica che avrebbe dovuto almeno tratteggiare i possibili scenari alternativi a quota 103, l’uscita con 41 anni di contributi e 62 anni in scadenza il 31 dicembre prossimo. Ma anche in questo round la discussione è rimasta, per dirla con le parole di Domenico Proietti segretario confederale Uil, “puramente accademica”.

Nessuna indicazione sul post Fornero, dunque. Ad essere state esposte dall’Osservatorio solo generali linee guida con cui valutare le eventuali ipotesi di intervento: la sostenibilità finanziaria e sociale della futura soluzione relativa al pensionamento degli italiani; la certezza e la stabilità delle regole che ne dovranno disciplinare l’attuazione. Riflessioni anche sul rapporto tra accordi aziendali e pensioni anticipate sul fatto che le uscite anticipate si intersechino spesso con la naspi e gli ammortizzatori sociali.
A pesare sul confronto comunque il fatto che non si tratti di tavoli politici a cui dunque non partecipa il ministro del lavoro, Marina Calderone.

L’Osservatorio, d’altra parte, riferiscono alcuni partecipanti all’incontro, non si sarebbe ancora interfacciato con il ministro e la relazione di medio termine sui temi toccati nei vari round precedenti, arriverà solo tra un po’. Per il 5 agosto è già in agenda un nuovo round tecnico con le parti sociali al quale l’Osservatorio dovrebbe presentare una breve introduzione che consentirebbe di avere un quadro più chiaro, se non altro, come spiegano i sindacati presenti, rispetto al contesto dei temi discussi, giovani, donne e flessibilità. I sindacati chiedono al governo di scoprire le carte e spiegare in modo chiaro come intende superare la Fornero. Intanto, il confronto politico vero e proprio sulle possibili soluzioni è rinviato a settembre.

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