Ponte, ancora studi e ancora dibattiti, il teatrino del Governo per non farlo - QdS

Ponte, ancora studi e ancora dibattiti, il teatrino del Governo per non farlo

Ponte, ancora studi e ancora dibattiti, il teatrino del Governo per non farlo

giovedì 19 Agosto 2021

Nonostante un progetto già “cantierato”, si rinvia tutto alle calende greche. Ripartendo da zero

ROMA – Sì al Ponte sullo Stretto, ma per non farlo. Cambiano i protagonisti, ma il copione è sempre lo stesso: nonostante oltre cinquant’anni di studi, dibattiti e relazioni di fattibilità tecnica ed economica, il collegamento tra Messina e Reggio viene ancora una volta rinviato alle calende greche, senza alcun serio cronoprogramma per la sua realizzazione. Sono serviti diversi mesi di analisi al Gruppo di lavoro istituito presso il Mims per venirci a raccontare un’ovvietà: “Sussistono profonde motivazioni per un sistema di attraversamento stabile dello Stretto”. Ma, come ha spiegato il ministro Giovannini all’inizio di agosto in audizione alla Commissione Trasporti della Camera, ora serve un nuovo “processo decisionale” per “confrontare soluzioni alternative”, nello specifico “i due sistemi di attraversamento con ponte a campata unica e a più campate”.

Déjà vu. La prima volta che si iniziò a dibattere del ponte correva l’anno 1866, quando il governo del neonato Regno d’Italia era guidato da Alfonso La Marmora e ai Lavori pubblici era preposto il ministro Stefano Jacini. Da allora di acqua sotto il ponte non ne è passata manco una goccia; i progetti invece si sono sprecati. Da quello dell’ingegnere statunitense di fama mondiale, David B. Steinman, datato 1952, fino al più recente di Eurolink, l’associazione temporanea di imprese guidata da Impregilo Spa che nel 2005 vinse la gara d’appalto. Un progetto arenatosi nel passaggio dall’ultimo Governo Berlusconi all’esecutivo tecnico di Monti, che decise di stoppare l’opera nonostante fossero già stati spesi 300 milioni di euro.

Ma quel progetto, che prevede la struttura a campata unica sospesa più lunga del mondo, è ancora valido ed è stato acquisito da Webuild, il gruppo leader delle costruzioni che ha realizzato in due anni il ponte San Giorgio di Genova. In totale il costo dell’investimento, aggiornato al 2021, ammonterebbe a 8,56 miliardi. In sei anni verrebbe realizzato un ponte lungo 3,66 chilometri, sostenuto con due torri da 400 metri, che sarebbero gli edifici più alti del Paese. Per lo Stato si avrebbero circa 8 miliardi di nuove entrate nella sola fase di costruzione, mentre nei trent’anni di gestione sarebbero generate da tutto l’indotto entrate erariali per 107 miliardi, oltre a 118 mila nuovi occupati tra assunzioni dirette e indotto, con un aumento dello 0,5 del tasso di occupazione nazionale e un incremento dello 0,2% del Pil italiano.

Puntare su un progetto che non è quello di Eurolink sarebbe uno spreco di tempo e di soldi pubblici anche perché alcuni lavori preliminari per il ponte a campata unica sono già stati effettuati. Era il 2009 quando la stampa nazionale e regionale annunciava l’avvio del primo cantiere per la realizzazione del ponte. Si trattava della deviazione della linea ferroviaria tirrenica in corrispondenza di Cannitello (la così detta variante di Cannitello) che era necessaria per sgombrare l’area in cui doveva sorgere il cantiere del pilone calabrese del ponte. Questi lavori, che hanno avuto un valore complessivo di 26 milioni di euro e sono stati completati nel 2012, dovevano essere solamente una prima fase del progetto più ampio di spostamento a monte dell’intera linea ferroviaria Battipaglia-Reggio Calabria. Attività che avrebbero dovuto avere una durata di 18 mesi. Purtroppo, dopo qualche mese dalla fine del cantiere di Cannitello, la SdM è stata messa in liquidazione e, di conseguenza, il progetto di Eurolink è stato bloccato.

“La variante di Cannitello – ha spiegato al QdS l’ingegnere Giovanni Mollica, in un’intervista pubblicata lo scorso 14 maggio 2021 – nasce perché una delle pile del pilone lato Calabria era proprio sul tracciato della ferrovia. Quindi bisognava modificare questo tracciato. Chi la spaccia per un’opera a sé stante, dice una sciocchezza. Perché è chiaro che la ferrovia è stata spostata solo perché lì ci deve andare il pilone”. Puntare su un altro progetto adesso significherebbe dunque abbandonarne uno già cantierato e per il quale è stato fatto anche un finanziamento pubblico specifico. “Non è per nulla vero quello che dice il ministro Giovannini, ovvero che a causa del vento il ponte a campata unica deve chiudere e interrompere il passaggio dei treni – ha concluso Mollica -. Esattamente il contrario, il ponte nasce per essere aperto 365 giorni l’anno. Inizialmente, negli anni ’70, si è pensato che la soluzione immediata fosse quella del ponte a due o tre campate. Perché era la cosa più logica, nessuno si sarebbe avventurato a farne uno con una campata del 50% più lunga di quella esistente se non fosse stato costretto. Tuttavia, dagli esami geotecnici sui fondali, sulla natura del vento e su tutta una serie di altre variabili, si è visto non solo che il ponte a più campate era un progetto rischioso, ma che era un progetto che non si poteva nemmeno iniziare. Realizzare un ponte a tre campate è illogico”.

Insomma lo studio era già stato ampiamente condotto. Perché dunque ora serve un “Nuovo processo decisionale”? Il ministro ha spiegato che la “prima fase” (la prima!) del progetto di fattibilità – per confrontare, come detto, le due soluzioni individuate dal Gruppo di lavoro, ovvero quella del ponte a una o più campate – “potrebbe concludersi entro la primavera del 2022, così da avviare un dibattito pubblico, al fine di pervenire a una scelta condivisa con i diversi portatori di interesse coinvolti”. Un dibattito infinito.

Una grande opera che farebbe crescere il Pil regionale del 6,8%

Se volessimo banalizzare il concetto di insularità potremmo limitarci a sostenere che coloro i quali vivono in un isola dispongono di un grado di libertà inferiore a chiunque altro, poiché per raggiungere direttamente il continente possono disporre soltanto di due possibilità: la via aerea e la via navale, mentre gli altri possono utilizzare anche le strade, le autostrade e le ferrovie. Spesso dimentichiamo o sottovalutiamo che la realizzazione del ponte sullo stretto di Messina, per noi siciliani, ha molto a che fare non solo con il traffico delle merci, non solo con i tempi di percorrenza e la velocità commerciale, non solo con l’occupazione, ecc. poiché è direttamente connessa proprio al concetto stesso di libertà, che invece persino la “truce” Europa ha più volte riconosciuto.

Nel 2003 quando, il Gruppo presieduto da Karel Van Miert e composto da un rappresentante delegato da ogni Paese della Unione Europea, cominciò ad identificare i “corridoi” portanti dell’intero assetto comunitario, “corridoi” che avrebbero dato vita al sistema delle Reti TEN – T, si soffermò a lungo proprio sul “corridoio 1” (Berlino – Palermo) e sulla conseguente realizzazione di un collegamento stabile tra la Sicilia ed il continente, che così diventava condizione obbligata per la incisività e la validità funzionale dell’intero “corridoio”.

Grazie alla limitata distanza tra continente ed isola, infatti, il progetto del ponte regalava non solo all’Italia ma alla intera Unione Europea la possibilità di annullare la serie di negatività posseduta da una delle isole fondamentali, con i suoi 5 milioni di abitanti. In quella occasione, anche, con l’aiuto della Banca Europea degli Investimenti (BEI), che sovrintendeva ai lavori del gruppo, furono elaborati alcuni approfondimenti relativi al PIL posseduto dall’isola in assenza di un collegamento stabile ed al PIL che si sarebbe prodotto in presenza di una simile grandiosa infrastruttura.

Gli studi in questione motivarono ampiamente l’urgenza di portare a termine, in tempi certi, la realizzazione di un collegamento stabile, altrimenti, con una sistematicità annuale, si sarebbe rischiato di compromettere una crescita del PIL della Regione di oltre il 30%. La cosa più grave, però, sempre nel 2003, fu la presa di coscienza del dato, davvero preoccupante, relativo al PIL pro capite: a quella data in Sicilia era pari a 16.000 euro, quando la soglia media dei Paesi della Unione Europea era di 31.000 euro e quella media delle isole facenti parte dell’Unione Europea, era di 22.000 euro.

Negli anni successivi ed anche di recente, i vari organismi competenti della Regione Siciliana, con il supporto della Società Prometeia, hanno effettuato un interessante studio mirato ad individuare proprio “i costi della insularità”. Da tale pregevole lavoro è emerso che l’insularità è in primo luogo un fattore limitante delle opportunità di crescita, nella misura in cui “produce ritardi di sviluppo sociale ed economico e fa degli isolani dei cittadini con diritti ridotti e affievoliti rispetto ai cittadini della terraferma. Si pensi solo all’annoso problema dei trasporti, che fa lievitare i prezzi dei servizi. Essere un’isola sconta uno svantaggio naturale che non mette i suoi abitanti in condizioni di pari opportunità con gli altri abitanti della penisola”. Di fronte a questo tema, a livello europeo, è possibile registrare una certa vivacità del dibattito. La stessa Commissione di Bruxelles, sempre secondo tale ricerca, considera, infatti, le Regioni insulari meritevoli di azioni e politiche idonee a recuperare tali divari in coerenza con gli obiettivi della Politica di Coesione, nel cui ambito, si è tenuto ampiamente conto nel riparto delle risorse finanziarie delle Politiche di Coesione e dei fondi Fas 2007-2013 e 2014-2020.

In termini generali, le ricerche sviluppate hanno permesso di valutare le dimensioni sottostanti allo svantaggio derivante dallo stato di isola, rispetto alle quali è possibile identificare alcune precipue caratteristiche che rendono possibile una diversa lettura del territorio. Si tratta, in particolare, dell’isolamento, della distanza geografica, della limitata dimensione dei mercati insulari, della difficoltà del trasporto stradale insulare, dell’impatto della mono-specializzazione dell’economia insulare, della vulnerabilità economica, della mancanza d’attrattività per la manodopera e per le imprese, dell’accesso limitato alle tecnologie di informazione e di comunicazione.

All’interno delle unità selezionate si registra una forte variabilità rispetto ai livelli della ricchezza, che riporta il Pil pro capite di alcune Isole europee. Dagli elementi esaminati si evince, che il Pil pro capite delle isole del Nord Europa prese in esame è superiore al livello della media UE e anche del PIL medio pro capite delle 362 Isole europee. Di contro, le Isole del Sud Europa hanno un Pil pro capite di molto inferiore sia alla media Ue, sia alla media delle 362 Isole.

I principali dati macroscopici sui quali gli esperti hanno lavorato hanno evidenziato, in particolare, una serie di divari mostrando per la Sicilia, nel 2018, un prodotto interno lordo pro capite pari a 17.721 euro, che la colloca in penultima posizione tra le regioni italiane (seguita non a caso dalla sola Calabria), risultando distante dalla media del Mezzogiorno per un valore pari a 1.266 euro. Nello stesso anno, il tasso di disoccupazione in Sicilia è stato pari al 21,5 per cento, distanziando di circa 3 punti percentuali il valore medio del Mezzogiorno (18,4 per cento) e duplicando il valore medio dell’Italia (10,6 per cento).

Per effettuare il loro lavoro, i redattori dello studio hanno scelto di seguire due differenti percorsi metodologici riassumibili nei seguenti approcci. Il primo approccio si basa sul lavoro svolto nel 2020 dall’Istituto IBL (Istituto Bruno Leoni), attraverso un modello econometrico che fa riferimento alla letteratura dello sviluppo per quantificare l’impatto medio annuo dell’insularità sul PIL pro capite e sul PIL complessivo, senza però potere differenziare rispetto alle singole “voci di costo” legate all’insularità. Il secondo approccio intende stimare il gap che l’insularità determina nei costi di trasporto, per stimare a cascata gli effetti sugli operatori economici e sui diversi settori economici delle attività di riferimento.

Ebbene i risultati della ricerca dimostrano che il gap della Sicilia in termini di maggiori costi di trasporto la rende la Regione italiana con l’indice più elevato. Infatti, in base alla media semplice, l’indice dei costi di trasporto della Sicilia è superiore a quello medio italiano del 50,7 per cento ed è superiore a quello del Sud (il Mezzogiorno continentale) del 29,8 per cento. Inoltre, se si tiene conto anche della dimensione economica delle Regioni di destinazione, gli indici dei costi di trasporto delle Regioni italiane si modificano in maniera significativa, riducendosi per le Regioni del Nord Ovest (-10,5 %), per quelle del Nord Est (-6,4 %) e per quelle del Centro (-4,3 %).

Per la Sicilia il gap nei costi di trasporto raggiunge il 58,8% rispetto alla media nazionale ed il 31,9 per cento rispetto al Sud. In realtà quest’ultima informazione rappresenta una stima del gap della Sicilia attribuibile proprio all’insularità.

Nella seconda fase della elaborazione della ricerca, sono stati presi a riferimento le ricadute economiche di investimenti infrastrutturali sull’estensione della rete autostradale e dei conseguenti risparmi nei costi di trasporto. Per una stima preliminare, gli studiosi hanno ritenuto sufficiente simulare gli effetti economici di una riduzione dei costi di trasporto della Sicilia che allinei questi ultimi con quelli dell’area benchmark delle Regioni del Sud. La ricerca in questione ha preso come riferimento l’arco temporale 2010 – 2016 ed ha simulato cosa succederebbe se i prezzi del settore Trasporti e magazzinaggio avessero una riduzione esogena pari al 23 per cento, rispetto al livello riguardante l’inizio della rilevazione risalente al 2010.

Sulla base degli elementi presi in considerazione l’effetto delle interdipendenze tra i prezzi dei settori produttivi l’impatto sul deflatore del valore aggiunto del settore Trasporti e magazzinaggio è di -31,4 % (ovvero un valore molto vicino al gap con il Sud stimato in precedenza) nel primo anno di simulazione, per poi progressivamente raggiungere il -47,0 % dopo 7 anni, quando l’economia si è stabilizzata su un nuovo livello di equilibrio. In termini aggregati la riduzione dei prezzi innescata dalla riduzione una tantum del costo dei trasporti si diffonde progressivamente nel sistema economico regionale, lungo tutto il periodo considerato, raggiungendo il -9,5 % nell’ultimo anno.

La riduzione dei prezzi e dei costi ha inoltre un effetto importante sulle esportazioni internazionali di beni, che a fine periodo aumentano dell’8,1 per cento rispetto allo scenario base. In termini reali aumentano anche i consumi delle famiglie (+2,4 %) e le spese per i consumi finali delle attività produttive, che reagiscono sia alla riduzione dei prezzi sia all’aumento del reddito disponibile delle famiglie (+8,9 % in termini reali).

In base a queste stime, con il ponte il Pil aumenterebbe fino a raggiungere un incremento del 6,8% rispetto allo scenario base, mentre gli occupati aumenterebbero del 2,8 per cento dopo 7 anni sempre rispetto allo scenario base. I fattori presi in considerazione sono stati misurati attraverso alcune variabili proxy poste in serie storica e riferite agli ultimi venti anni per tutte le Regioni italiane e, a seguito dell’applicazione di un modello regressivo, è stata ottenuta una stima econometrica che quantifica il costo dell’insularità per la Sicilia in circa 6,54 miliardi di euro pari al 7,4 per cento del PIL regionale (a valori correnti dell’anno 2018). A differenza della Regione Sardegna nel qual caso è praticamente impossibile annullare la sua insularità, la Sicilia può quindi recuperare davvero quel grado di libertà e di sviluppo ricordato all’inizio che, secondo quanto emerso dalla ricerca descritta, consentirebbe un aumento del PIL regionale di oltre il 6%, con un recupero annuale di circa 6 miliardi di euro.

Alla luce delle osservazioni svolte e dei dati ufficiali precedentemente illustrati, solo un governo in malafede può abbandonare il lavoro svolto in tanti anni di studi e di progettazione, mandando al macero quanto era già stato posto in essere e che aveva determinato l’appalto dell’opera, e decidere di ricominciare da zero, trascurando il dettaglio che un simile strumentale, quanto assurdo, percorso negherebbe, di fatto, la possibilità di realizzare l’opera in tempi ragionevoli.

Salvo Fleres

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