Amini, Mohammadi, Piperno e ora anche la giornalista italiana Sala: nel carcere di Evin chi lotta perde ogni diritto
TEHERAN – “E che succede se decidiamo che è giusto fare ciò che ci va e non quello che la società o una qualsiasi autorità ci impongono?” scriveva così la scrittrice iraniana statunitense Azar Nafisi nel suo libro Leggere Lolita a Teheran ambientato in un Iran che deve fare i conti con la rivoluzione islamica di Khomeini, nel quale insegnare letteratura all’università, con una durissima censura dei testi, era diventata un’impresa impossibile. Se non si sottostava ai diktat dell’ayatollah. Nel mondo occidentale la domanda di Azar Nafisi ha un sapore di democrazia, ma in Iran ha il gusto amaro della sopravvivenza.
Mhasa Amini, Narges Mohammadi, Alessia Piperno, Pakhshan Azizi, Zeinab Musavi, Cecilia Sala. Solo alcune delle donne che hanno qualcosa in comune: hanno vissuto o vivono le condanne della polizia morale religiosa e una delle carceri più temute del Medioriente, a Evin in Iran, quella “riservata” a dissidenti politici, giornalisti e oppositori del regime. Questa prigione istituita nel 1972 per i prigionieri politici dopo la rivoluzione islamica del 1979, in sostanza, è un mezzo del regime islamista per silenziare le voci delle donne che non accettano le violenze sistemiche, fisiche e psicologiche, del regime islamico e della polizia morale. Quelle che hanno un seguito tra i loro coetanei, che studiano o che si organizzano per trovare la forza di cambiare il loro mondo, così ostile al genere femminile. O semplicemente donne che non hanno seguito alla lettera il codice imposto dalla sharia, la “legge di Dio”.
In questi giorni è il turno della giornalista italiana Cecilia Sala intrappolata in un intrigo internazionale ma che, al di là di questo, il giorno prima del suo arresto avvenuto lo scorso 19 dicembre, pubblicava sul suo podcast di successo, Stories, una puntata dedicata alla comica iraniana Zeinab Musavi, arrestata dal regime per gli sketch di uno dei suoi personaggi. Aveva anche pubblicato una foto dell’artista sul suo profilo Instagram: “Ho incontrato una persona a cui ho voluto bene per anni da lontano. Ha riso dei giorni in cella di isolamento: ‘Even this is funny? Everything is funny’. La carcerazione preventiva è finita ma il processo davanti alla magistratura islamica è ancora in corso, per questo non era scontato che accettasse di incontrarmi, le sono grata per averlo fatto”. Dopo questo, per Sala, il buio. Anzi la luce assordante, visto che una delle torture nel carcere di Evin consiste nell’avere dei neon puntati addosso giorno e notte, per perdere la concezione del tempo che scorre.
Le torture per queste donne hanno un tempo a volte breve ma fatale, com’è stato per Mhasa Amini che fu arrestata il 13 settembre 2022 dalla polizia religiosa mentre era in vacanza con la sua famiglia, solo per aver indossato male l’hijab. E solo per questo, dopo essere stata portata in una stazione di polizia ed essere entrata in coma in condizioni sospette, è morta tre giorni dopo. Una morte inaccettabile che ha reso eterna Amini, diventata il simbolo e il motivo di lotta per tantissime donne iraniane che si sono riversate nelle strade dal 2022 in poi sfidando a viso aperto autorità, politica e forze di polizia.
Ma la tortura può durare anche una vita. Tra queste donne rivoluzionarie a cui si è tentato di mettere il bavaglio c’è anche Narges Mohammadi, premio Nobel per la pace 2023, sostenitrice della disobbedienza civile femminista di massa contro l’hijab e contro la pena di morte e per questo condannata dal maggio 2016 a 16 anni di detenzione dal regime iraniano. Sedici anni in una cella di isolamento sono tanti, come è troppa una vita sprecata a non poter parlare perché qualcun altro ha deciso sulla tua testa. O per meglio dire: sul tuo corpo, sul tuo destino, sui tuoi studi, sulla tua prole.
Donna, vita, libertà. Persino supportare questo grido femminile, diventa reato. È il caso della travel blogger italiana Alessia Piperno, che aveva raggiunto le donne in rivolta contro il regime nelle manifestazioni di massa scaturite dall’uccisione di Mhasa Amini sotto il grido curdo “Jin, Jîyan, Azadî” . Per questo Piperno è stata imprigionata nel carcere di Evin per 45 giorni, in quella che lei stessa nel suo libro Azadì! ha definito “un angolo di inferno”.
Non è un caso che lo slogan delle donne iraniane sia in lingua curda. Il carcere di Evin è usato in larga scala proprio per le donne curde di Iraq, Iran e Siria che lottano, culturalmente e anche militiramente, per autodeterminarsi e liberare il loro popolo.
Tra loro la detenuta più nota è Pakhshan Azizi, 40 anni, assistente sociale e attivista femminista curda, che rischia l’esecuzione dopo che il Tribunale rivoluzionario di Teheran l’ha condannata a morte nel luglio 2024. È stata accusata di “ribellione armata contro lo Stato” esclusivamente in relazione alle sue attività in difesa dei diritti umani. È colpevole di aver aiutato donne e bambini sfollati in seguito agli attacchi dello Stato Islamico, nei campi campi profughi nel nord-est della Siria e nella Regione del Kurdistan in Iraq. Il suo ricorso davanti alla Corte Suprema è ancora in attesa di giudizio.
La Repubblica degli ayatollah mette al bando tutte le donne che non siano in asse con l’interpretazione sciita del Corano e, per meglio dire, con la loro precisa idea di Stato, usando il carcere di Evin per spegnere voci femminili e diritti umani. Anche la musica, lì dentro, diventa reato. Lo dimostra l’esempio della cantante Parastoo Ahmadi che dopo aver raggiunto su Youtube due milioni di visualizzazioni per la sua performance in pubblico, ma senza uomini ad accompagnare la melodia, (la sharìa vuole che una donna possa cantare solo in coro o in duetto con un uomo) è stata imprigionata a Evin. Ora è libera ma ha rischiato la pena di morte.
La lista delle vittime di regime può andare avanti all’infinito, almeno fino a che, contro lo scudo della sharìa e dei tiranni che la impongono, ci saranno donne che raccontano, che cantano, che si organizzano per autodeterminarsi, che testimoniano e che rifiutano il silenzio. Cecilia Sala ora si trova in una di quelle celle di isolamento, probabilmente la stessa in cui qualcuna delle sue sorelle ha sofferto per la luce assordante, per il freddo, per i pianti e le grida di dolore di qualche altra detenuta. Una di quelle celle in cui si finisce a fissare un soffitto sporco di ingiustizia e lacrime, colpevoli di aver voluto guardare verso un orizzonte di vera libertà.