Infrastrutture, trasparenza ed efficienza nella Pubblica amministrazione, legalità e sicurezza. Siamo nel 2023, ancora in attesa che tutti questi nodi vengano sciolti
“La permanenza del divario tra Nord e Sud è legata ad una molteplicità di fattori”. Era il 2011 e Raffaele Fitto, ospite del Forum del Quotidiano di Sicilia, spiegava da ministro per i Rapporti con le Regioni e la Coesione Territoriale i nodi della cosiddetta questione meridionale.
“Se si pensa che il Mezzogiorno in questi decenni non sia cresciuto per mancanza di risorse e interventi statali, si compie un grosso errore e ci si allontana dal fulcro del problema, che è piuttosto quello della gestione delle risorse”, diceva Fitto rispondendo alle domande del nostro direttore Carlo Alberto Tregua. Fitto parlava di grave noncuranza facendo riferimento proprio al ritardo nella spesa di fondi comunitari “che rischia di determinare il disimpegno dei finanziamenti privando di risorse il Sud”.
Una frase che se ascoltata oggi appare quanto mai attuale e rende l’idea dell’immobilismo vergognoso della politica di fronte ad un problema che ci trasciniamo da decenni. Infrastrutture, trasparenza ed efficienza nella Pubblica amministrazione, legalità e sicurezza. Siamo nel 2023, ancora in attesa che tutti questi nodi vengano sciolti. Ma rispetto al passato, abbiamo finalmente un’opportunità concreta di cambiare le cose: il Pnrr.
Lo scorso 9 ottobre proprio Fitto, oggi Ministro per gli Affari europei, il Sud, le Politiche di coesione e il Pnrr, ha dichiarato che la Commissione europea aveva versato la terza rata del Pnrr per un ammontare di 18,5 miliardi di euro: “Il pagamento della terza rata è la prova dei grandi progressi fatti nell’attuazione del Pnrr. Con tale pagamento, l’Italia ha ricevuto 85,4 miliardi di euro, corrispondenti a più del 44% del totale del Pnrr”. I prossimi obiettivi annunciati da Fitto saranno incassare la quarta rata entro la fine dell’anno e presentare a Bruxelles il raggiungimento degli obiettivi della quinta rata entro il 31 dicembre.
Quanto emerge dalla Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza nel primo semestre 2023, approvata dalle Sezioni riunite in sede di controllo della Corte dei conti il 6 novembre frena gli entusiasmi: “Risultano tutti conseguiti a sistema i 28 obiettivi del primo semestre 2023, facendo salire al 34 per cento il livello complessivo di attuazione (28 per cento a fine 2022). In esito a tale avanzamento 41 iniziative hanno esaurito gli obiettivi europei per le stesse fissati: si tratta di 32 riforme, segnando un progresso del 49 per cento sul totale di categoria, e 9 investimenti, pari ad oltre il 4 per cento del complesso. Dette 41 misure in discorso non possono naturalmente considerarsi ultimate, in quanto le stesse potrebbero necessitare di step realizzativi ulteriori, rispetto agli obiettivi concordati in sede europea. Meno rassicuranti i risultati per le 54 scadenze di rilevanza nazionale. La ricognizione effettuata dalla Corte dei conti, sulla base delle informazioni presenti a sistema ReGiS e di quanto comunicato in sede istruttoria dalle Amministrazioni responsabili, evidenzia un tasso di conseguimento più basso (74 per cento, n. 40), mentre circa il 19 per cento figurava in corso e un’ulteriore quota del 7 per cento in ritardo”.
L’inefficienza della pubblica amministrazione
A emergere è anche un’altra importante questione, sulla quale il Quotidiano di Sicilia punta i riflettori da anni: l’inefficienza della pubblica amministrazione. “La realizzazione del Piano nazionale di Ripresa e Resilienza – osserva la magistratura contabile – può incontrare qualche difficoltà nella limitata dotazione della PA italiana di personale specializzato in ambito digitale”.
Nel sottolineare tale limite, la Corte rimarca che, per allineare il peso delle figure professionali scientifiche e ingegneristiche agli standard europei, occorrerebbe aumentarne il numero di ben 65.000 occupati. Obiettivo che “rappresenta una sfida difficile” perché richiederà un particolare impegno, in virtù delle difficoltà riscontrate nell’ultimo biennio dall’attività concorsuale per il reperimento di questi profili professionali ma anche della “una scarsa propensione alla scelta della PA come datore di lavoro da parte delle generazioni più giovani, soprattutto se dotate di competenze abbastanza ricercate sul mercato del lavoro”.
Mancano le figure professionali
Allo stato attuale se nel complesso dell’occupazione delle suddette figure professionali i più giovani (classe 25-34 anni) rappresentano oltre un quarto degli occupati, nella PA il loro peso è ridotto all’8 per cento, mentre a incidere maggiormente è la classe 45-54 anni, dove si concentra oltre il 43 per cento dell’occupazione S&E (scientists and engineers, nda)”.
La carenza di competenze, di profili professionali all’altezza delle sfide che ci pone l’Ue rappresentano la vera incognita: il vulnus, l’elemento di debolezza che rischia di far saltare i piani. La pubblica amministrazione è ricchissima di risorse umane. Alla quantità di personale non sempre corrisponde la qualità. Un altro problema, dunque, quello dell’elefantiasi della macchina amministrativa italiana, che la politica spesso ha addirittura negato e che in ogni caso non è mai stata in grado di affrontare.
Secondo l’Osservatorio sui lavoratori pubblici dell’Inps, nel 2022 il numero di lavoratori pubblici con almeno una giornata retribuita nell’anno è stato di 3.705.329, con una retribuzione media di 34.153 euro e una media di 278 giornate retribuite.
I lavoratori pubblici con contratto a tempo indeterminato nel 2022 sono stati 3.065.709, circa l’82,7% del totale, con una retribuzione media annua di euro 38.083 e 299 giornate medie retribuite. Il 77,9% dei lavoratori pubblici ha un’età uguale o maggiore di 40 anni. Il 23,9% dei dipendenti pubblici lavora nelle regioni nel Centro; seguono le regioni del Nord-ovest con il 22,8%, il Sud con il 21,8%, il Nord-est con il 20% e le Isole con l’11,4%.
Qualche giorno fa ci ha pensato Moody’s a gelare l’Italia. Nel confermare il rating sul nostro Paese ha detto che permangono “rischi concreti che l’Italia non sia in grado di sfruttare al massimo le risorse del piano nonostante le recenti proposte di riorganizzazione e riformulazione di alcune componenti”.
Giannola, Presidente dell’Associazione per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno
“Il Sud Italia è un pezzo fondamentale per la rinascita di tutto il nostro Paese”
Il Dl Sud recante “disposizioni urgenti in materia di politiche di coesione, per il rilancio dell’economia nelle aree del Mezzogiorno del Paese, nonché in materia d’immigrazione” è legge.
Tra le misure previste c’è la Zona Economica Speciale Unica per il Meridione. Su questo tema, il Quotidiano di Sicilia ha intervistato Adriano Giannola, Presidente dell’Associazione per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno (Svimez).
Presidente, nel Dl Sud approvato in via definitiva, è prevista la Zona Economica Speciale Unica per il Meridione che suscita consensi e dissensi. Lei pensa sia un buon provvedimento?
“Occorre vedere come viene messa in atto: la decontribuzione degli oneri sociali del 30%, prevista nel provvedimento, già esisteva ma era a termine; è da capire se adesso rimanga tale o divenga strutturale. è attrattivo il credito d’imposta che comunque, se ricordo bene, è per investimenti al di sopra di un certo ammontare, cioè dei 200 mila euro e non riguarda le piccole e piccolissime imprese. Rimane poco chiaro il ruolo delle otto zone economiche speciali originarie: il ministro non chiarisce, probabilmente per prudenza, il contenuto dell’articolo 11 di quel decreto che prevede un piano di sviluppo per il Sud che deve essere approvato dal Governo. O quel piano esalta l’attrattività di quegli otto capi saldi che sono otto porti e ne trae beneficio tutto il contesto che ha pari diritti, oppure credo che l’efficacia della Zes per il Sud rimanga depotenziata”.
I rischi nella Zes unica per il Sud, se ce ne sono, di quale natura potrebbero essere?
“Il rischio esiste solo se ci sono meno soldi e riguardo al fatto che c’è più potere al centro e meno alle regioni o almeno un coordinamento più attento e più di controllo di impulso da parte del centro verso le regioni. Questo in realtà può essere un rischio come un’opportunità e non saprei a priori dire se le regioni funzionano meglio di una efficace cabina di regia centrale. Quest’ultima può serbare tanti rischi ma sappiamo anche che esiste un enorme rischio di dispersione avendo a che fare con otto regioni ognuna delle quali crede di essere uno stato”.
Serve, secondo lei per il Sud, un Piano Mattei come quello pensato per l’Africa?
“Il Piano Mattei al momento per me è soltanto una sigla mentre quello che occorre, a mio avviso, è un Piano per l’Italia che attualmente sarebbe molto importante mettere ‘sul tavolo’ della Commissione Europea. Occorre un piano che parta dal Mezzogiorno, che costituisce il pezzo fondamentale per la rinascita del Paese e il ministro ogni giorno dovrebbe ribadire questa visione che invece non mi sembra molto messa in risalto, probabilmente per prudenza. Il ruolo del Mezzogiorno d’Italia e in particolare della Sicilia, che si trova al centro del Mediterraneo e il ruolo dei porti, sono di primaria importanza per lo sviluppo di tutto il Paese”. (rp)