Dalla festa di Sant'Agata a quella di San Sebastiano. Tra i tanti divieti di questo periodo, uno dei più sofferti è quello che esprime l’impossibilità di svolgere le tradizionali manifestazioni religiose e folkloristiche.
Tra i tanti divieti di questo periodo, uno dei più sofferti, sicuramente, è quello che esprime l’impossibilità di svolgere, come prima, le tradizionali manifestazioni religiose e folkloristiche.
Sono state, infatti, annullate le processioni, rinviati i
festeggiamenti, cancellati tutti i riti esterni delle feste religiose. Il
covid-19 ha mutato decisamente le espressioni di devozione e pietà popolare,
riuscendo così a fermare secoli di riti e tradizioni, alcune mai interrotte
neanche nel corso delle guerre mondiali.
È il caso, per esempio, della festa di Sant’Antonio Abate,
celebrata il 17 gennaio in numerosi centri rurali dell’Isola, caratterizzata
dalla benedizione degli animali, dall’accensione delle “vampe” (un falò) e dal
rito comunitario di preparazione e benedizione del pane. Quest’anno nulla di
tutto ciò è stato possibile, a causa dell’emergenza Covid. Ma anche la festa
di San Sebastiano, celebrata il 20 gennaio e particolarmente sentita nel
messinese, catanese e siracusano, si svolgerà senza le tradizionali processioni,
svelate, balli, fuochi ed esposizioni di ex-voto. Nei giorni scorsi è stato
ufficialmente comunicato che, pure a Catania, la festa di Sant’Agata
(una delle tre principali feste cattoliche per affluenza al mondo) “non potrà
svolgersi nelle modalità consuete”.
Eppure, nonostante le numerose limitazioni, la fiamma della
fede non è venuta meno. Anzi, per certi versi, le limitazioni hanno permesso a
tanti di cogliere l’essenzialità delle feste religiose, il cui fulcro è “la
celebrazione della Santa Messa”, come ricorda don Salvatore Mallemi,
parroco della chiesa di San Francesco di Paola, a Vittoria.
Qual è, allora, il valore delle manifestazioni esterne
nelle feste religiose?
“Generalmente ci sono due posizioni: quelli a favore e
quelli contro. Quelli a favore sostengono che le manifestazioni esterne nelle
feste religiose sono momenti importanti perché permettono l’aggregazione, oltre
ad essere un’importante forma di evangelizzazione. Durante queste occasioni,
infatti, la gente si reca in chiesa in maniera spontanea. Inoltre si possono
considerare forma di preghiera semplice ed immediata che passa attraverso un
linguaggio popolare e simbolico, fatto di fiori, candele, ornamenti
particolari.
C’è anche la posizione di chi legge queste forme di pietà
popolare come un residuo di partiche medioevali, una espressione dell’ignoranza
della religione che cerca rifugio in quelli che vengono definiti “surrogati”. A
volte vengono addirittura interpretati come una forma “magica ed ignorante”
della fede, motivo per cui – da questo punto di vista – la fede matura dovrebbe
fuggire da queste forme devozionali.
Credo la verità stia in mezzo perché bisogna accostarsi alle
forme della pietà popolare con sano equilibrio e discernimento, applicando
l’espressione di S. Paolo “esamina tutto e prendi ciò che è buono”. I papi, nel
tempo, hanno incoraggiato le forme di devozione popolare dicendo però che vanno
purificate alla luce della parola di Dio e del Magistero della Chiesa,
correggendo le storture che non permettono di vivere appieno la fede cristiana”.
L’epidemia ha provocati una cesura nella tradizione,
impedendo lo svolgersi abituale di tante forme di devozione. Emergono anche
aspetti positivi?
“Questa sospensione ha permesso di insistere maggiormente
sull’essenziale della fede cristiana, che è la centralità della parola di Dio e
la centralità dell’eucarestia. Si sono inoltre moltiplicate le conferenze, i
momenti di istruzione religiosa, le catechesi su internet, valorizzando
ulteriormente la celebrazione eucaristica, unica forma nella quale era permesso
andare in chiesa. Questo ha permesso di sperimentare che il cuore delle feste è
la vicinanza a Cristo, che avviene attraverso la celebrazione dell’eucarestia e
dei sacramenti. Parliamo allora della valorizzazione della dimensione
sacramentale.
Un secondo aspetto positivo è la riscoperta della dimensione
domestica del giorno di festa: il giorno di festa viene vissuto nelle case, così
la famiglia si riunisce in preghiera anche nel gesto di addobbare una icona,
accendere un cero, preparare il presepe. Insomma, c’è la riscoperta di una
forma semplice e genuina della pietà popolare.
Altro aspetto positivo è sicuramente l’input alla pastorale
attraverso i social, una digitalizzazione dell’annuncio della fede, potremmo
dire. L’unico limite, i questo caso, consiste nel rischio di cadere in un certo
soggettivismo, a scapito della dimensione ecclesiale e sacramentale. Manca, in
pratica, l’incontro con gli altri”.
Quali sono, allora, gli aspetti negativi?
“Anzitutto viene meno la dimensione della festa, che è una
dimensione antropologica fondamentale. È importante radunarsi assieme per far
festa o in occasione della festa.
Venendo meno una tradizione, inoltre, viene meno l’identità
di un popolo. Le feste religiose hanno anche un valore antropologico che è dato
dal ritrovarsi insieme, una gioia che dalle nostre parti è espressa da alcuni
segni esterni: le luminarie, i fuochi d’artificio, la musica, la banda…Ecco,
questi sono segni della nostra gioia. Una festa senza queste cose viene vista,
allora, impoverita. In realtà non lo è perché, come già detto, il cuore della
festa è un altro, però i segni esterni della festa risultano utili. Nei piccoli
centri le feste si avvertono in modo particolare, qui gli eventi religiosi sono
preparati e attesi tutto l’anno. A volte divengono motivo di orgoglio di un
popolo. Una festa, tra l’altro, attira turisti, oltre che devoti, diventando
occasione di incremento del benessere economico locale.
Venendo meno una festa viene meno anche un patrimonio
culturale: canti popolari, litanie e musiche particolari, vengono meno forme di
rappresentazioni fatte di quadri, dipinti, immagini, ex voto.
Insomma, sono aspetti negativi notevoli. Ritengo allora che la
mancanza delle feste sia un’occasione perduta di evangelizzazione, di condivisione
ed una mancata espressione della gioia di un popolo”.
Alessia Giaquinta