La Corte di Strasburgo ha bacchettato più volte il nostro Paese parlando di una legge “tutta da riscrivere”. Durata “irragionevole” dei procedimenti: in Sicilia, nel 2008 sono state 1600 le istanze presentate
PALERMO – Processi troppo lunghi, giustizia-lumaca e cittadini da tutelare, ma soprattutto da risarcire. Sono questi i contorni grotteschi della giustizia italiana e della situazione che si delinea a fronte delle lungaggini burocratiche che rallentano i procedimenti giudiziari nel nostro Paese e di una legge, la n.89 del 24 marzo 2001 (la cosiddetta “Legge Pinto”), che è stata istituita al fine di garantire la durata ragionevole dei processi (ovvero tre anni per il primo grado e due anni per in giudizio in appello) ma che in verità presenta delle lacune a dir poco “imbarazzanti” che non sono passate inosservate in Europa e che hanno dato vita ad episodi che hanno dell’inverosimile.
La legge Pinto prevede che chi ha subito un danno patrimoniale, o comunque morale, scaturito dalla durata eccessiva del procedimento giudiziario possa avanzare un’istanza di risarcimento che dovrebbe oscillare tra le 1000 e le 2000 euro per ogni anno di durata eccessiva del processo. Spesso però accade che, una volta riconosciuto il risarcimento, quest’ultimo tardi ad arrivare. Ed ecco il paradosso, poiché si prospetta per il cittadino il diritto a rivendicare il risarcimento per il mancato risarcimento.
Come evidenziato poc’anzi, le lacune a dir poco bizzarre della legge Pinto non hanno lasciato indifferente la Corte di Strasburgo, che già nel 2006 parlò di una legge “da riscrivere” ma cercò allo stesso tempo di indicare all’Italia la strada da intraprendere per avviare delle riforme sostanziali e per rendere più efficiente tutto il sistema giudiziario: semplificazione delle procedure e istituzione di un sistema di finanziamento specifico degli indennizzi che permetta di rispettare tempi ragionevoli per i risarcimenti.
In Sicilia, nel 2008, sono state ben 1.600 le istanze per ingiustificati ritardi pervenute nelle quattro sedi di Corte di Appello: in ballo ci sarebbero qualcosa come due milioni di euro. Nella nostra Isola, soprattutto negli ultimi anni, non c’è stato presidente di Corte d’Appello che non abbia evidenziato i limiti del sistema giudiziario italiano nella presentazione della relazione di apertura dell’Anno Giudiziario. Tuttavia, al momento, il nostro Paese sembra fare “orecchie da mercante” giacché la Corte europea di Strasburgo si è pronunciata ancora una volta sullo stesso tema e stavolta, con sentenza depositata il 31 marzo 2009, ha condannato l’Italia per aver violato il diritto di un cittadino italiano ad un processo in tempi ragionevoli e ad un risarcimento adeguato. I fatti risalgono al 2003, quando il dipendente di un’azienda sanitaria chiede che gli venga riconosciuto un indennizzo per l’eccessiva durata del processo iniziato nel lontano 1992 e che lo aveva visto rivolgersi al Tar per il rimborso di alcuni buoni pasto.
La Corte di Appello di Roma gli ha riconosciuto un indennizzo pari a 700 euro che gli viene liquidato però dopo oltre un anno, quando invece il tempo previsto è di sei mesi dal momento in cui la decisione diviene esecutiva e non entro sei mesi dal momento in cui la decisione della Corte d’Appello è comunicata all’amministrazione o notificata. Sulla base di ciò la Corte di Strasburgo ha riconosciuto al cittadino in questione un indennizzo pari a 3.950 euro per danni morali.
“Diritto a processi equi entro termini ragionevoli” così il Consiglio d’Europa tutela i cittadini
PALERMO – La sentenza della Corte di Strasburgo n.2264/03, depositata il 31 marzo 2009, oltre all’obbligo di un risarcimento di quasi quattro mila euro al cittadino italiano danneggiato da un indennizzo giunto troppo tardi rispetto ai tempi previsti, è costata all’Italia una condanna per violazione dell’art. 6 Cedu (Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), che recita così: “Diritto ad un processo equo. Ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un tribunale indipendente ed imparziale costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta”.
La Cedu è un trattato internazionale firmato a Roma nel 1950, entrato in vigore il 3 settembre 1953 ed elaborato dal Consiglio d’Europa che si propone di promuovere la democrazia, i diritti dell’uomo, l’identità culturale europea e la ricerca di soluzioni ai problemi sociali in Europa.
Il Consiglio d’Europa conta 47 Stati membri ed è da considerarsi un’organizzazione a sé, distinto dall’Unione Europea.