Beni confiscati, l’Europa riprende le idee di Falcone. “Nella Direttiva Ue centrale il riuso per fini sociali” - QdS

Beni confiscati, l’Europa riprende le idee di Falcone. “Nella Direttiva Ue centrale il riuso per fini sociali”

Beni confiscati, l’Europa riprende le idee di Falcone. “Nella Direttiva Ue centrale il riuso per fini sociali”

Roberto Greco  |
mercoledì 27 Marzo 2024

Antonio Balsamo, sostituto procuratore generale della Cassazione, spiega al QdS le novità definite a livello comunitario

Mentre in Italia alcune scelte, sia normative sia di assegnazione, sembrano spuntare una delle principali armi di contrasto alle consorterie mafiose, l’Unione europea ha deciso di affilarla. Lo scorso 13 marzo l’Europarlamento ha approvato una risoluzione legislativa sulla proposta di direttiva dello stesso e del Consiglio che prevede il rafforzamento del regime di rintracciamento, congelamento e confisca dei beni criminali. A tal proposito interviene al QdS Antonio Balsamo, sostituto Procuratore generale della Corte di Cassazione.

Antonio Balsamo, sostituto Procuratore generale della Corte di Cassazione

Procuratore, finalmente sia la “Rognoni-La Torre” sia la L. 109/96, la legislazione che si occupa del sequestro, della confisca e del riuso dei beni della criminalità organizzata, hanno trovato l’afflato per essere applicate in Europa…
“Esattamente. La Direttiva europea approvata riprende l’ispirazione originaria della ‘Rognoni–La Torre’, soprattutto relativamente al rilievo sulla confisca rispetto ai proventi della criminalità organizzata e un rilievo come profilo di prova tra acquisti e redditi”.

Com’è organizzata la Direttiva?
“Sostanzialmente sono diversi punti fondamentali. Il primo è che si prevede una pianificazione pre-sequestro, chiedendo alle autorità che devono procedere di realizzare un lavoro di programmazione al fine di capire quale sia il miglior sistema di gestione più adeguato rispetto alle caratteristiche dei beni per evitare perdite di valore. L’altro aspetto importante è la grande rilevanza che è data al principio del riuso ai fini sociali dei beni confiscati con la migliore definizione di questo principio esistente. Nella Direttiva si dice ‘il riutilizzo sociale dei beni confiscati invia alla società un chiaro messaggio sull’importanza di valori come la giustizia e la legalità; riafferma il prevalere dello stato di diritto nelle comunità più direttamente colpite dalla criminalità organizzata; rafforza la resilienza di queste comunità contro l’infiltrazione criminale nel tessuto sociale economico’. Come ricordava lei, della L. 109/96 è compresa l’importanza che ha nell’impatto sociale. Altri aspetti importanti: si parla, per la prima volta, di gestione delle imprese ‘per preservare la continuità aziendale’ e, sempre per la prima volta, c’è un riferimento al tema dei cripto patrimoni, i c.d. crypto-assets, che si proietta nel futuro perché oggi, sia la criminalità organizzata sia il terrorismo, si avvalgono pesantemente di questi strumenti, rispettivamente per il riciclaggio e per il finanziamento. È la proiezione nel futuro di questa idea che è nata in Italia grazie a persone come Giovanni Falcone”.

Ora questa Direttiva dovrà essere recepita dagli Stati membri…
“Ora è prevista un’armonizzazione, in quanto tutti gli Stati membri dovranno introdurre sia forme di confisca non basate sulla condanna sia, come recita l’art.16 della Direttiva, ‘confisca di patrimonio ingiustificato collegato a condotte criminose’”.

Nel caso dell’Italia, visto che siamo già forniti di una normativa, cambierà qualcosa?
“A mio parere potranno esserci modifiche significative. Innanzitutto la possibilità di cooperazione internazionale creando forti somiglianze tra le legislazioni per poter rendere immediata la cooperazione per il sequestro e la confisca dei patrimoni della criminalità organizzata all’estero. Altro punto che ritengo fondamentale, e che dovrà essere introdotto anche in Italia, è l’attuazione della confisca non basata sulla condanna per i patrimoni ingiustificati non solo in riferimento alla criminalità mafiosa, ma a quel concetto di criminalità organizzata che è tipica del diritto dell’Unione Europea e che si può riferire a tutte le forme di criminalità collettiva di una certa gravità. Il nostro apparato normativo è più mirato sulla criminalità di tipo mafioso, con un concetto più ristretto della prospettiva europea. Questa Direttiva potrà, ad esempio, operare sulle attività delittuose connesse a internet”.

A proposito, invece, della vendita dei beni confiscati. Questa Direttiva come tratta l’argomento?
“È trattato in maniera specifica ed esaustiva. Supporta la vendita dei beni anche prima del provvedimento di confisca nel caso in cui si svalutino rapidamente, prevedano costi di manutenzione sproporzionati rispetto al valore di mercato o quando la gestione dei beni richiede competenze non facilmente disponibili. È previsto, inoltre, il contraddittorio con il soggetto interessato, con la creazione di garanzie nei suoi confronti, al fine di sospensione del procedimento di vendita qualora il soggetto non risultasse colpevole dei reati a lui ascritti, al fine di eviragli un danno irreparabile. Inoltre sono previste misure al fine di evitare il riacquisto dei beni da parte di soggetti collegati ai destinatari delle misure patrimoniali”.

Sulla base della sua esperienza, quale sarà il passo successivo per rendere maggiormente omogenea tutta la legislazione nei confronti della criminalità organizzata in tutta l’Unione Europea?
“Intanto va detto che quello che prima era ritenuta una singolarità italiana oggi è un riferimento per tutti gli Stati membri, essendo un progetto riformatore condiviso e realizzato con un’ottica autenticamente europea. C’è un altro aspetto importante su cui si può insistere e che ritengo si potrà attuare solo nella prossima legislatura”.

Cosa intende?
“Questo concetto di criminalità organizzata che attualmente è molto esteso ma che si ricollega solamente al limite massimo della pena non inferiore ai quattro anni. Dobbiamo evitare che dalla variabilità delle sanzioni previste possa derivare una mancanza di omogeneità, ad esempio per le forme d’illecita concorrenza mediante violenza o minaccia, che in alcuni paesi potrebbero non essere colpite con una pena superiore ai quattro anni e quindi rientrare nell’applicazione. Si tratta della difesa di valori fondamentali dell’Unione Europea quali la libera concorrenza e il libero mercato”.

Se guardiamo il resto del mondo, qual è la situazione?
“In molti paesi c’è una forte tendenza sia nel Consiglio d’Europa sia nelle Nazioni unite. Ci sono due atti fondamentali. Il primo è la risoluzione 2218 del 2018 dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa che prevede di incoraggiare gli Stati all’introduzione di forme di confisca non basate sulla condanna. La risoluzione ‘Falcone’ del 2020, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, chiamata anche Convenzione di Palermo, è la base legale in 192 Stati nel mondo per l’esecuzione all’estero non basate sulla condanna”.

Quelle spallate alla “Rognoni-La Torre” che hanno creato crepe nella normativa

Le difficoltà che spesso accompagnano il processo di destinazione dei beni confiscati alimentano, periodicamente, il dibattito intorno al tema della loro possibile vendita. Si tratta di un aspetto particolarmente delicato perché, in primo luogo, il riuso sociale dei beni confiscati, previsto dalla legge 109/96, esprime una prospettiva di riscatto territoriale e di restituzione alla collettività che la vendita non permette di realizzare. Mettere sul mercato questi beni significa, inoltre, esporsi al rischio che questi ritornino nelle mani della criminalità organizzata, magari attraverso prestanome, vanificando anche l’aspetto simbolico che la loro sottrazione determina.

L’aggressione ai patrimoni illeciti e le misure di prevenzione patrimoniali nella disciplina vigente sono state introdotte con la legge 13/9/1982, n. 646, la c.d. legge “Rognoni-La Torre”, approvata in tempi rapidi dopo gli omicidi di Pio La Torre, il 30 aprile 1982, e del Prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, il 3 settembre 1982. Nell’ordinamento giuridico italiano l’azione di contrasto patrimoniale alla criminalità organizzata si svolge essenzialmente in due fasi. La prima è quella relativa all’aggressione dei patrimoni e attiene alle indagini per l’individuazione, il sequestro e, quindi, alla confisca delle ricchezze delle mafie. La seconda attiene alla destinazione dei beni e dei patrimoni delle organizzazioni criminali restituendoli alla collettività attraverso il loro riutilizzo sociale, produttivo e pubblico.

La prima “spallata” è stata data dal c.d. Decreto sicurezza, il Dl 113/2018 convertito in Legge 132/2018, che, modificando l’articolo 48 del Codice Antimafia, ha introdotto la possibilità di procedere, a certe condizioni e con una serie di cautele, alla “vendita al miglior offerente” dei beni immobili di cui non sia possibile effettuare la destinazione o il trasferimento introducendo una novità significativa se si pensa che, fino a quel momento, la vendita era possibile solo verso determinati soggetti, quali enti pubblici, associazioni di categoria e fondazioni bancarie, che, quindi, offrivano una serie di garanzie alla possibile riacquisto da parte delle consorterie mafiose.

La seconda “spallata” è arrivata dalla c.d. legge Cartabia, oggi in vigore, e al suo articolo 33, quello che regola i rapporti tra la confisca e l’improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione. L’improcedibilità è quel meccanismo introdotto dalla riforma Cartabia che fa chiudere i processi se in Appello non si concludono entro un certo periodo di tempo: due anni per quasi tutti i reati base, tre per quelli gravi come la mafia. Di fatto è stato introdotto un nuovo status perché, oltre ai soggetti condannati, a quelli assolti e ai prescritti, la norma prevede gli improcedibili.

Ma cosa accade ai beni sequestrati o confiscati ai soggetti giudicati colpevoli in primo grado, ma il cui processo è diventato improcedibile in secondo grado? Sulla base delle disposizioni contenute dal decreto verrebbero revocate le confische, i cui presupposti sono stati accertati nel contraddittorio nel giudizio di primo grado, nella quasi totalità dei casi.

In occasione dell’anniversario dell’entrata in vigore della L. 109/96, Libera ha censito le esperienze di riutilizzo sociale dei beni confiscati. In Sicilia sono 285, erano 267 nel 2023, le diverse realtà impegnate nella gestione di beni confiscati alla criminalità organizzata in 61 comuni. Una rete di esperienze in grado di fornire servizi e generare welfare, di creare nuovi modelli di economia e di sviluppo. In Italia sono 1.065, con un aumento del 7,4% rispetto allo scorso anno, i soggetti diversi impegnati nella gestione di beni immobili confiscati alla criminalità organizzata, ottenuti in concessione dagli Enti locali, in 20 regioni, in 383 Comuni.

Sulla base dei dati dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (Anbsc), al 22 febbraio scorso, sono 22.548 i beni immobili destinati ai sensi del Codice antimafia con un aumento del 14% rispetto al 2023, mentre sono in totale 19.871 gli immobili ancora in gestione e in attesa di essere destinati. Sono invece 3.126 le aziende destinate, +77% rispetto al 2023, mentre sono 1.764 quelle ancora in gestione.

In Sicilia sono 7.727 i beni immobili destinati mentre sono 8.656 gli immobili ancora in gestione e in attesa di essere destinati. Sul lato delle aziende, in Sicilia sono 551 le aziende destinate mentre sono 913 quelle ancora in gestione. Dal punto di vista del riutilizzo sociale, invece, lo scorso mese di settembre il Consiglio Direttivo dell’Anbsc ha deciso la destinazione alla gestione dell’emergenza abitativa, come già successo a Palermo e Catania.

Ma, in mezzo a questi dati, proprio sul territorio siciliano, ci sono alcuni episodi che stanno suscitando perplessità. Il primo è relativo alla villa che un tempo fu di proprietà di Placido Aiello, il genero di Graci, uno degli imprenditori che il giornalista Pippo Fava definì cavalieri dell’apocalisse mafiosa che non compare più nell’elenco dei beni potenzialmente da destinare ad attività sociali bensì in quello dei beni in vendita.

Altro caso assurto ai (dis)onori delle cronache è quello del villino Geraci a Altavilla Milicia, in provincia di Palermo, un bene sottratto a un imprenditore mafioso che è stato affidato nel 2012 al “Consorzio Ulisse”. Doveva diventare un centro aperto ai giovani e alle attività culturali, invece ha funzionato perlopiù come ristorante, bar e discoteca oppure, sempre a Palermo, un bene confiscato mai assegnato dall’Agenzia beni confiscati nel quartiere di San Lorenzo che l’imprenditrice Valeria Grasso ha utilizzato per anni come sede della sua associazione, ma anche come palestra, senza alcuna autorizzazione e per il quale due senatrici del M5S hanno presentato un’interrogazione al ministro dell’Interno.

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