Da inizio anno 31 suicidi nelle carceri italiane, che ospitano 10 mila detenuti in più rispetto alla capienza regolare. Anche la Sicilia in emergenza con 400 reclusi oltre i posti disponibili. Oggi la mobilitazione dei Garanti regionali
Dall’inizio dell’anno sono già avvenuti 31 suicidi nelle carceri italiane, con una media di uno ogni tre giorni. È un numero terribile, che ricorda quello del 2022, quando si registrarono 84 suicidi, ovvero uno ogni quattro giorni. Il dato è stato presentato in audizione sul “Rapporto sulla situazione carceraria 2023” in commissione “Diritti umani” al Senato dai volontari di Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale che a breve presenterà il proprio rapporto intitolato “Nodo alla gola” per richiamare l’attenzione su quella che è definita una “vera e propria emergenza”.
Qualche giorno fa il Guardasigilli Nordio ha deciso di firmare un decreto per lo stanziamento di 5 milioni di euro per prevenire il fenomeno del suicidio in carcere e diminuire il disagio psicologico provato dai detenuti. L’ultimo suicidio in carcere è avvenuto il 2 aprile, a Cagliari: un 32enne si è impiccato nella sua cella.
Allarme anche per la polizia penitenziaria
Tuttavia, l’allarme non coinvolge soltanto i detenuti, ma anche la polizia penitenziaria. Tre agenti, infatti, si sarebbero uccisi nel corso dei primi mesi dell’anno. “I suicidi sono il prodotto della lontananza della politica e della società civile dal carcere”, dice la Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà, che ha organizzato per oggi 18 aprile una giornata di mobilitazione, a un mese esatto dall’intervento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “Sui suicidi in carcere servono interventi urgenti” ha detto il capo dello Stato il 18 marzo scorso. “Ormai non si fa più in tempo a enumerare i casi di suicidio che si è subito costretti ad aggiornarne l’agghiacciante elenco – dicono i garanti territoriali –. Si tratta di uno stillicidio insopportabile, al pari della sensazione di inadeguatezza delle attività di prevenzione”.
Oggi momento di riflessione sui suicidi e sulle morti in carcere
La gioranta di oggi sarà un momento di riflessione sui suicidi e sulle morti in carcere, che vedrà coinvolti tutti i Garanti regionali, provinciali e comunali. Nel corso della manifestazione sarà letto un appello elaborato dalla Conferenza nazionale, contenente i nomi dei detenuti morti suicidi, per malattia e altre cause ancora da accertare, nonché i nomi degli agenti di polizia penitenziaria che quest’anno si sono tolti la vita, per non dimenticare le loro storie e il dramma delle loro famiglie. L’appello è rivolto al ministero della Giustizia, all’Amministrazione Penitenziaria, ai membri di Camera e Senato e alla società civile.
Oltre 61.000 le persone detenute in Italia oggi
Sono 61.049, di cui 2.619 donne, le persone detenute in carcere in Italia oggi, a fronte di una capienza regolamentare nei 189 istituti presenti sul territorio nazionale, come comunicato dal Ministero della Giustizia il 31 marzo scorso, di 51.178 persone. Diecimila reclusi in più rispetto agli spazi disponibili: un emergenza quella del sovraffollamento che riguarda anche la Sicilia dove si registrano 6.859 detenuti su 6.468 posti “ufficiali”, quasi 400 persone in più complessivamente, anche se a spulciare i numeri dei 23 istituti di pena dell’Isola si trovano situazioni potenzialmente ancora più esplosive. Come quella del carcere di piazza Lanza, a Catania, dove i numeri vedono oltre 100 reclusi in più (398 su una capienza di 279 posti) o come quella dell’istituto di Augusta dove addirittura si superano le 200 unità in sovrannumero (565 su 364 posti).
Il ritratto del nostro sistema carcerario della Cgil
La Cgil nazionale, elaborando i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), ha tracciato un ritratto del nostro sistema carcerario confluito nel rapporto “Articolo 27. I diritti in carcere”, presentato lo scorso 3 aprile a Roma. Secondo quanto emerso, a febbraio 2024 i due terzi degli istituti penitenziari italiani presentano un numero di persone ristrette maggiore dei posti regolamentari, con un tasso di sovraffollamento ufficiale medio del 119% che si colloca tra i più alti in Europa. In Puglia si arriva al 153%, al 142% in Lombardia, 134% in Veneto mentre in Sicilia si sfiora il 110%.
A fronte dell’attuale popolazione carceraria il livello d’insostenibilità della condizione carceraria è evidente, soprattutto se si pensa che le quasi 10 mila persone ristrette in più rispetto ai posti regolamentari sono solo quelle che “risultano sulla carta”. Si arriva, in realtà, a quasi 14 mila se si considera che i posti effettivamente disponibili, a causa dell’inagibilità e indisponibilità di molti spazi, risultano essere poco più di 47 mila. Condizioni ai livelli record di quindici anni fa, gli anni che portarono la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo alla sentenza dell’8 gennaio 2013 di condanna dell’Italia per violazione dei diritti umani.
Il sovraffollamento delle carceri non è l’unico aspetto
Ma il sovraffollamento non è l’unico aspetto che rende la situazione critica perché, quasi ovunque, siamo alla presenza di spazi fatiscenti, condizioni detentive degradanti e disumane, carceri vetuste con celle spesso non riscaldate o senza acqua calda né doccia, con bagni a vista, carceri in cui i detenuti dormono su materassi a terra, che hanno strutture con spazi individuali inferiori ai 3 metri quadrati e molti reparti con detenuti chiusi nelle proprie camere di pernottamento anche durante il giorno. Un quadro che favorisce l’insorgere di molte malattie, a partire dal disagio mentale, prima causa dei suicidi in carcere. Sono tanti i giovanissimi che si tolgono la vita anche a causa di un clima che, in alcune carceri, è sempre più teso a causa della crescita del sovraffollamento e di quel senso di solitudine opprimente derivante da questo.
Va inoltre aggiunta la mancanza di fondi per avere più operatori sociali qualificati, una maggiore formazione degli operatori carcerari, spazi dedicati a socializzazione e percorsi lavorativi e la carenza di personale nella Polizia Penitenziaria. Tutto questo non solo peggiora la situazione ma rende più difficile anche il poter dare risposte alle fragilità che hanno maggiore urgenza di essere affrontate e supportate.
Intervista al garante per la tutela dei diritti dei detenuti in Sicilia Santi Consolo
“Carenze strutturali e di organico in molti istituti”
Interviene al QdS Santi Consolo, vice capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dal 2008 fino al 2011, quando è nominato dal Csm procuratore generale della Corte d’appello di Catanzaro fino al marzo 2014, e poi di Caltanissetta. Nel 2013 era stato eletto nel Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, l’organo di autogoverno dei giudici tributari. Da dicembre 2014 al luglio 2018 è stato Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, nominato dal consiglio dei ministri. Terminato l’incarico al Dap, è tornato al vertice della procura generale di Catanzaro, fino alla pensione. Nel maggio 2023 è stato nominato, dal presidente della Regione siciliana Renato Schifani, Garante per la tutela dei diritti dei detenuti in Sicilia.
Dottore, qual è la situazione attuale in Sicilia?
“La situazione in Sicilia presenta carenze strutturali notevoli in moltissimi istituti così come sono in sofferenza le attività trattamentali soprattutto quelle attinenti alla formazione e al lavoro. In una mia recente visita alla Casa Circondariale Pagliarelli di Palermo, ho appreso che il Ministro ha stanziato ben 15 milioni per il rifacimento di tre padiglioni della struttura che, quest’inverno, non hanno potuto erogare il riscaldamento quando nella legge del 1975 è scritto che tutti gli ambienti, comprese le camere per il pernottamento devono essere riscaldati e questa rappresenta una sofferenza aggiuntiva. Mi auguro che, anche grazie a questa spesa, i cronoprogrammi relativi ai lavori dei tre padiglioni siano mantenuti e che, con questa ingente spesa, siano allestiti oltre agli elementi essenziali per un trattamento umano si possano agevolare anche tutte le attività trattamentali che aiutano a un recupero sociale della persona”.
Dai direttori delle strutture arriva la lamentela relativa al personale che è sotto organico e non parliamo solo della Polizia penitenziaria ma anche del personale medico, psichiatrico, tecnico-amministrativo…
“C’è carenza di organico in tutti i settori e questo determina la loro sofferenza. Questo pregiudica la qualità della vita all’interno degli istituti e quindi ne soffrono quanti sono addetti alla custodia delle persone ristrette ma pregiudica anche quei programmi di trattamento necessari. In questi mesi, con il ruolo di Garante, ogni qual volta che ho fatto una proposta organizzativa, migliorativa o progettuale ho avuto risposte negative proprio per le carenze negli organici. Possono sembrare cose marginali, ma anche la sola assenza di un contabile può pregiudicare le progettualità avviabili all’interno dell’istituto. Non parliamo poi delle carenze nel settore dell’assistenza medica perché la Sicilia, sotto il profilo dell’assistenza sanitaria, non fornisce un buon servizio a tutti gli utenti e questo ha ricadute maggiormente negative per i detenuti perché i ritardi nelle visite mediche, nelle cure e nei ricoveri a volte sono talmente drammatici da pregiudicare definitivamente le prospettive di cure e di guarigione”.
Molti direttori d’istituti sono contemporaneamente co-reggenti di altri istituti…
“Quando mi sono insediato questo fenomeno era molto più accentuato. Di recente diversi dirigenti hanno superato i il concorso e hanno assunto servizio nei principali istituti dell’isola, tra questi Trapani e Agrigento. Ricordo che quello di Trapani era amministrato dal direttore dell’Ucciardone di Palermo, con le difficoltà legate alla tipologia dei due istituti. Devo dire, e ciò deve andare a vanto di questa nuova generazione di direttori, che ho incontrato sia nella fase di tirocinio sia nelle funzioni che hanno assunto. Sono molto bravi, sono soprattutto donne, sono pieni di entusiasmo e, a me, hanno manifestato un ricordo per il mio passato ma, soprattutto, un intento collaborativo che mi riempie di speranza e di gioia”.
La presidente di “Nessuno tocchi Caino” Rita Bernardini
“La liberazione anticipata risolverebbe buona parte dei problemi”
Potremmo dire che Rita Bernardini è l’erede di Marco Pannella che lotta per i nostri diritti. È l’attuale presidente di “Nessuno tocchi Caino”, lega internazionale di cittadini e di parlamentari per l’abolizione della pena di morte nel mondo, associazione senza fine di lucro fondata a Bruxelles nel 1993, riconosciuta nel 2005 dal Ministero degli Esteri italiano come Ong abilitata alla cooperazione allo sviluppo.
In tutti questi anni ha girato e gira in lungo e in largo per le carceri d’Italia, incarnando letteralmente quell’opera cristiana di misericordia corporale del “visitare i carcerati”, caricandosi delle criticità e disagi non solo dei detenuti ma anche della comunità dei c.d. detenenti, ossia la polizia e tutti gli altri operatori penitenziari.
Qual è la situazione a livello nazionale delle misure di contrasto al sovraffollamento delle carceri?
“Come da sempre ci occupiamo di sovraffollamento e di suicidi e lo facciamo con il metodo che ci ha insegnato Marco Pannella, quello della non violenza. Come ‘Nessuno tocchi Caino’ e con il deputato Roberto Giachetti siamo riusciti, dopo 24 giorni di sciopero della fame, a far calendarizzare la proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale e ordinamentale che risolverebbe buona parte dei problemi relativi al sovraffollamento. Sono stata la prima ad essere audita, due settimane fa in Commissione Giustizia alla Camera dei Deputati. Nella giornata del 16 si sono tenute altre audizioni, tra cui quella di Giovanni Melillo, procuratore nazionale antimafia e quella di Sebastiano Ardita, procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catania e il 17 quella del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Felice Maurizio D’Ettore, ultima audizione prevista e oggi, 18 aprile, scade il termine per la presentazione degli emendamenti dopo di ché la proposta di legge è calendarizzata per l’Aula il prossimo 29 aprile e sapremo, finalmente, se sarà accolta positivamente o meno”.
È in atto, a questo proposito, una forte polemica…
“Sì perché, dal canto suo, il procuratore Melillo si è detto favorevole e anzi ha contribuito con alcuni suggerimenti atti a migliorarla per rendere più celere la liberazione anticipata speciale, segno che è consapevole che il colpevole, in questo caso è lo Stato che è fuori legge perché a causa del sovraffollamento i magistrati di sorveglianza sono costretti a dare il risarcimento previsto dal 35/ter per trattamenti umani e degradanti e, da uomo delle istituzioni si pronuncia, seppur con dei distinguo, a favore. Per contro, il dottor Ardita ha paventato un indulto che contribuirebbe a rimettere in libertà, in due anni, oltre 23.000 detenuti e tra questi boss e violentatori e inoltre dimezzerebbe le pene previste. L’indulto, peraltro, è previsto dalla nostra Costituzione e prevede una maggioranza al voto in Aula pari ai 2/3 dei parlamentari ma qui stiamo parlando di liberazione speciale, la medesima che fu adottata all’inizio del 2014, dopo la condanna dell’Europa del 2013, quando era ministro il Prefetto Annamaria Cancelleri”.
Cosa prevede la vostra proposta?
“Prevede che, per il passato, la liberazione anticipata speciale e, come prevedeva la Cancelleri, aumentare nei semestri le giornate portandole dalle attuali 45 a 75 giorni ma solo per quei detenuti che abbiamo dimostrato di aderire all’opera rieducativa, quindi non quelli delle rivolte o di quanti, in carcere, si sono comportati male quindi non a pioggia. La seconda parte prevede, per il futuro, di modificare la liberazione anticipata portandola stabilmente dai 45 attuali ai 60 ogni semestre. La terza modifica infine, ed è su questa che il procuratore Melillo ha espresso delle perplessità, è quella di far concedere la liberazione anticipata anche dai direttori della struttura per sopperire agli eventuali ritardi che ci fossero da parte dei magistrati di sorveglianza, visto il loro carico di lavoro. Oltre ai suggerimenti di Melillo abbiamo avuto il contributo anche del professor Glauco Giostra, professore di diritto processuale penale presso l’Università degli Studi di Roma ‘La Sapienza’. L’obiettivo comune è quello di accelerare le procedure perché, a causa della carenza di personale, i magistrati di sorveglianza oggi non sono in grado di soddisfare tutte le richieste che provengono dai detenuti”.
Sono più di 2000 i detenuti italiani nelle carceri estere
Quanti sono i detenuti italiani all’estero? I dati aggiornati al 2024 ipotizzano che il numero sia aumentato a 2.415 nell’anno in corso, almeno secondo gli ultimi numeri provenienti dalla Farnesina. Si tratta di cittadini con passaporto italiano che sono stati condannati all’estero o che sono in attesa di giudizio o di estradizione. Tra i casi più recenti c’è quello della 39enne milanese Ilaria Salis che si trova in carcere a Budapest da quasi un anno con l’accusa di aver aggredito due estremisti di destra nella capitale ungherese. Il più noto è Chico Forti, il cui rientro in Italia per scontare la pena inflittagli, sembra vicina. In realtà sono molti i nostri connazionali che popolano le prigioni di tutto il mondo, in ogni continente del globo. Gli italiani nelle carceri del Lussemburgo sono tre ma ci sono persone detenute anche in Algeria, Iraq, Siria, Brasile, Bolivia, Cile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Ecuador, Guatemala, Honduras e Messico e sono più di 200 quelli detenuti nel Nord America.
Si tratta di un tema molto complesso e di dimensioni abbastanza preoccupanti. Per ognuno di loro c’è una storia che racconta maltrattamenti, giustizia poco democratica, difficoltà per il rispetto dei diritti e anche per il diritto alla difesa, dato che gli avvocati non sempre possono essere i più adatti anche alla necessità di dover coprire distanze anche tra continenti. In passato c’è un nostro connazionale, Claudio Castagnetta, che è morto in una prigione del Canada e del quale si è parlato poco o quasi niente e non si sono mai sapute le ragioni reali della sua morte.
C’è la storia di Simone Renda, che era andato in vacanza in Messico ed è stato ucciso in prigione. Era stato semplicemente fermato perché avevo avuto un malore, era andato in ansia perché stava per perdere l’aereo ed è stato fermato dalla polizia per problemi di disordine pubblico. Dopo due giorni, la madre ha ricevuto una telefonata in cui le chiedevano se volesse indietro suo figlio cremato o se volesse la salma. Oggi abbiamo connazionali in detenzione in Slovacchia cui viene dedicato quel trattamento di trasporto con manette ai polsi e caviglie e che dormono tra escrementi e topi e scarafaggi. Un altro connazionale in arresto in Grecia è stato portato in tribunale con solo le manette ai polsi lasciate però per tutto il tempo dell’udienza. Ha trascorso quindici giorni di carcere senza che gli dessero da mangiare e si è cibato grazie al cibo portato dalle famiglie di altri detenuti del posto. Era in cella con dieci detenuti e c’erano solo sette materassi buttati per terra senza lenzuola.
Ci sono poi Filippo Mosca, Luca Cammalleri e la ragazza che era con loro, che vengono portati in tribunale ammanettati, ma che per mesi hanno dormito in compagnia di scarafaggi. Filippo ha seri problemi di salute, deve seguire un certo regime alimentare ma è costretto a cibarsi con pastina semicotta nel latte o scatolette di tonno e carne, acquistate con le possibilità economiche della famiglia e che, inoltre, è stato oggetto di un’aggressione nella prigione di Porta Alba.
Proprio per parlare della storia di Filippo e Luca, entrambi siciliani di Caltanissetta, lo scorso 16 aprile nella Sala Matterella dell’Ars, si è tenuto un incontro organizzato da “Nessuno tocchi Caino”, l’associazione che si batte anche in Italia per un’esecuzione penale e per processi improntati ai principi costituzionali italiani e convenzionali europei, cha ha voluto manifestare vicinanza e solidarietà ai due cittadini italiani a pochi giorni dalla sentenza d’appello prevista per il prossimo 19 aprile.
La richiesta, assieme a tutti i rappresentanti istituzionali che condividono questa iniziativa, è quella dell’ottenimento di un processo legale, una sentenza giusta e un rapidissimo rientro in Italia dei due connazionali. All’incontro hanno partecipato Gaetano Mosca, padre di Filippo, Pietro Cammalleri, fratello di Luca, Rita Bernardini, Presidente di “Nessuno tocchi Caino”, Santi Consolo, ex capo del DAP e garante dei detenuti in Sicilia, Donatella Corleo del Consiglio direttivo di Nessuno Tocchi Caino, Armida Decina, Avvocata del foro di Roma, Matilde Falcone, Consigliera comunale della DC a Caltanissetta oltre a Roberto Giachetti, parlamentare di Italia Viva in collegamento da remoto.
È stato ricordato l’intervento del ministro degli Esteri Antonio Tajani, a seguito anche di un’interrogazione dell’On. Roberto Giachetti, per rendere meno gravosa e disperante la detenzione di Filippo e Luca. Grazie all’intervento di Tajani, da qualche tempo, i due ragazzi sono stati spostati in una cella con capienza di cinque persone rispetto a quella che in precedenza li ospitava, di soli 30 mq, in cui erano presenti 25 detenuti, alcuni dei quali molto violenti e armati.
“Abbiamo rilevato – ha dichiarato Rita Bernardini al QdS – una detenzione inumana e degradante, superiore a quella che si vive in Italia. Oggi abbiamo il problema del processo perché nel primo grado, che li ha visti condannati a oltre otto anni, abbiamo potuto rilevare che non sono state rispettate le regole del giusto processo anche perché, in questo caso c’è una ragazza che ha dichiarato che il pacco contenente le sostanze stupefacenti era indirizzato a lei e non a Mosca e Camalleri. Sono state fatte intercettazioni illegali e interpretate male nella fase di traduzione dall’italiano. Quello che chiediamo è un processo giusto secondo le regole europee e, a definizione dell’iter processuale, chiediamo che i ragazzi tornino celermente in Italia a scontare la pena”.
“Per onestà intellettuale, devo dire che l’ordinamento carcerario in Romania, contrariamente a quello italiano, prevede che il detenuto possa fare una telefonata al giorno, della durata massima di un’ora e mezza, ai suoi congiunti. È grazie a questo che le famiglie hanno potuto essere costantemente aggiornate, proprio dalla voce di Filippo e Luca, di quanto stava succedendo in quel carcere”.