L’attore e regista romano firma il suo ottavo lungometraggio e si racconta al QdS: “Ho lavorato sugli spazi tra le parole”
Un percorso artistico che non è cominciato con le luci della ribalta, ma in teatri dove erano otto in scena e quattro spettatori. Edoardo Leo è un ‘late bloomer’, uno che è emerso tardi. Guardando in controluce la sua storia d’autore e d’attore, si delinea chiaramente il profilo di chi racconta storie, sì per mestiere, ma anche e soprattutto per accendere una luce su fatti che ci riguardano da vicino. Firma e interpreta il suo ottavo lungometraggio di finzione allontanandosi dalla zona di comfort della commedia di costume per inscenare una tragedia vecchia più di quattrocento anni ma drammaticamente attuale.
Prodotto da Vision Distribution, Groenlandia e Italian International Film in collaborazione con Sky, ‘Non sono quello che sono’, ovvero ‘Otello’ di William Shakespeare ambientato nei primi anni Duemila. Al cinema dal 14 novembre.
“L’idea di lavorare all’Otello nasce quindici anni fa da un articolo letto su un quotidiano. Un uomo, accecato da una folle gelosia, uccide sua moglie e poi si suicida. È, allo stesso tempo, la sinossi di una delle opere teatrali più famose nel mondo e triste cronaca dei nostri giorni. Da lì è partita una lunga ricerca per pensare un adattamento contemporaneo che fosse il più possibile rispettoso dell’originale”.
Dal confronto tra le numerose traduzioni italiane, fatte in epoche diverse, è maturata la convinzione che, per restituire la ‘parola’ di Shakespeare, il dialetto, romano e napoletano, fosse paradossalmente il più vicino a rappresentare la forza di quel linguaggio.
“Un lavoro di traduzione che è durato molti anni e mi ha permesso di filmare Otello senza ‘toccare’ il testo che è stato, tranne per i tagli necessari, integralmente riportato. La grande sfida è stata eliminare quella parte di pietas per l’eroe romantico, che leggevo in molte traduzioni. Il mio intento, al contrario, era quello di dipingere Otello come carnefice e non come vittima, spostando l’accento del significato ma utilizzando fedelmente le parole di Shakespeare. Per questo mi sono affidato al non-detto, ho lavorato sugli spazi tra le parole”.
Un progetto rivolto ai giovani, preceduto da un masterclass tour nei principali atenei d’Italia.
“Sono stati momenti molto significativi perché il novanta percento delle ragazze in sala ci hanno parlato di aver subito molestie verbali o fisiche”.
Anche le Università di Catania e di Messina hanno accolto la proposta. Che rapporto ha con la Sicilia?
“Per vari motivi, è un posto che amo. E non solo per le mie vacanze, nelle quali è sempre una tappa obbligata, ma perché ho lavorato molto in Sicilia. Tante fiction e film e soprattutto le mie tournée teatrali. Ho ricordi di spettacoli a Catania, Palermo ma anche in cittadine più piccole con teatri meravigliosi. In Sicilia si respira teatro ad ogni angolo”.
Cosa le appartiene della nostra sicilianitudine?
“Senza alcun dubbio l’amore ed il rispetto per il mare”.
Cos’è per lei il rispetto?
“È l’ascolto. Se sto davvero in ascolto del mio prossimo non lo prevarico, rispetto il suo spazio e la sua parola, rispetto la sua sensibilità e capisco meglio la mia”.
Cosa si cela dietro l’apparente normalità di questa umanità stravolta, incapace di riconoscere nell’altro unicità e bellezza?
“La mancanza di vero ascolto, di sguardo interessato all’altro davvero e non come scusa per poi parlare immancabilmente del nostro io”.
Dentro e fuori dal personaggio di Iago, qual è la sua idea del mondo maschile di oggi?
“Il problema non è tanto la mia idea, che lascia il tempo che trova, quanto piuttosto l’osservazione della cronaca, dei dati, delle donne uccise giorno dopo giorno, delle prevaricazioni sul mondo del lavoro, dello squilibrio di genere. Quando, come maschi, non lo riconosciamo, significa che siamo parte del problema”.
Evidentemente, c’è qualcosa di sbagliato nella maturazione affettiva di un’intera società e nell’incapacità degli uomini di controllare le proprie emozioni. Forse, però, si potrebbe pensare, anche nel rapporto troppo possessivo e a volte morboso delle madri con i figli maschi. Ne conviene?
“Non convengo. È l’ennesimo inganno in cui facciamo ricadere le colpe dei maschi sulle donne. È una lettura francamente inaccettabile”.
I dati ci dicono che da gennaio a giugno del 2024 i femminicidi sono stati 49, il 21% in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Vuol dire che un cambiamento è possibile, ma ancora non basta. Cosa occorre per essere più incisivi?
“Se il dato fosse di un femminicidio all’anno sarebbe comunque ancora troppo. Siamo in ritardo con questo cambiamento. Indubbiamente il lavoro di informazione e prevenzione sta alzando il velo su un problema tragico. Io non so dire come si possa essere più incisivi. Ognuno deve fare la sua parte. Io faccio il cinema e, col cinema, cerco di portare storie che spero possano accendere una luce sul problema”.
In un mondo caratterizzato sempre più da relazioni virtuali, in cui il coinvolgimento spesso risulta indiretto, come si potrebbe descrivere la bellezza dell’amore alle nuove generazioni?
“La bellezza non si descrive, si mostra. Come la poesia non si spiega. Le emozioni arrivano anche se siamo distratti da altro. La bellezza è un vento leggero che non sai quando è arrivato e non sai perché non c’è più. Ma, in quel passaggio, ti ha spettinato i capelli e l’anima. Penso che le nuove generazioni siano più attente alla bellezza di quanto immaginiamo”.