La distruzione è figlia dei colpi di mitragliatrici, cannoni e granate lanciate da uomini, che per prendere la città, hanno dovuto combattere casa per casa, come testimoniano gli scritti
Impossibile. È impossibile ascoltare quanto si dice su questa maledetta guerra. Tra chi vede spie di Putin dappertutto e nazisti in ogni ucraino, rimanere allibiti è il minimo. Rabbia, mutismo e rassegnazione, è il sentimento quasi comune. Una riflessione però è d’obbligo: in giro ne resta davvero poca di gente equilibrata. Non sappiamo dove porterà questa guerra fratricida tra Russia e Ucraina.
Se ne parla incessantemente in tutte le lingue e in ogni maniera. Ogni giorno è un continuo ping pong di notizie. Dalle più drammatiche, alle insignificanti e per finire a vere e proprie fake news. Puntuali però arrivano le smentite da entrambe le parti.
Crescono opinionisti e sapienti di ogni tipo. Negazionisti e oltranzisti, i più, nella maggioranza dei casi, di parte. Analisi e punti vista, a volte contorti, si sprecano, andando ad ingrossare i leitmotiv dei quotidiani talk show che imperversano sui canali televisivi.
Tutto ciò non fa altro che provocare nell’opinione pubblica, disorientamento, confusione e una presa di distanza graduale e inesorabile da questo conflitto. Intanto le vittime continuano ad aumentare ed ogni giorno è un bollettino di massacri, nè gli annunci di “tavoli” diplomatici registrano passi avanti. Anzi sono le reciproche provocazioni a dominare la scena.
La politica pare impotente. L’ONU, oltre a sospendere la Russia dal Consiglio dei diritti umani, per il resto, latita. Per non parlare infine di alcuni media che sembrano sguazzarci dentro, preoccupati più di aumentare le tirature dei loro giornali, che a prendere posizioni chiare e inequivocabili.
Assistiamo ad un aumento scandaloso dei fondi per gli armamenti. Ancora più precisi, più sofisticati e super tecnologici. A vantaggio di lobby e aziende del settore. Anche italiane. Vogliamo la pace e mandiamo armi?
È di questi giorni peraltro, il via libera della Commissione Finanze al Senato, dello stop all’Iva sulle compravendite di armi. Per la soddisfazione della Nato. L’unica certezza, almeno fino ad ora, è che appare lontana una risoluzione rapida e positiva del conflitto. Molto lontana.
Fuggono gli ucraini, soffrono, muoiono. Si dice vengano pure torturati e deportati. Protesta una parte di russi in patria. Non vogliono passare come gli spietati invasori alla corte dello zar Putin. Urlano le madri i cui figli ventenni si trovano a dover combattere contro il loro volere, e a morire.
Noi Europei invece, giusto per metterci in pace con la coscienza, abbiamo deciso che è giusto indignarsi per questa guerra. Ma vivaddio, solo per questa! Perché è troppo vicina a noi o forse perché la paura che ci coinvolga è davvero tanta. Abbiamo deciso che ci sono guerre di serie A e di serie B. Morti di serie A e di serie B. E nel frattempo, per restare in tema, proliferano le schiere di “tifosi” a favore dei Putin o dei Zelensky.
Presto abbiamo dimenticato quando, neanche sei anni fa, i sauditi bombardavano un ospedale pediatrico nello Yemen e i russi quello di Aleppo. Che dire poi del bagno di sangue in Cecenia, in Crimea e della guerra ancora in corso nel Donbass. Ne vogliamo parlare? Travolti dagli implacabili ritmi occidentali, lasciamo tutto nel dimenticatoio e prima o poi, anche per questa guerra finirà così.
Rimuoveremo le immagini delle interminabili code di profughi in fuga. Degli edifici sventrati, dei cadaveri violati e abbandonati per le strade di Bucha, Irpin, Kramatorsk e Makariv. Delle fosse comuni. Degli ospedali e scuole di Mariupol. Delle infrastrutture di Odessa cancellate dalla pioggia di missili russi. Un vecchio proverbio siciliano recita: “Calati juncu, ca passa la china”, che tradotto fa “Piegati giunco che passa la piena”.
Questi siamo noi! Pronti a piegarci, come l’acquifero giunco. In attesa di far passare quanto di peggio sta per arrivare, per poi andare avanti tra indifferenza e noncuranza. Quasi abituati a catastrofi e guerre, tanto da non prenderle più in considerazione, soprattutto quando non ci toccano.
Insomma, il motto del “carpe diem”, è ormai insito nel nostro sistema di vita. Si azzarda di una terza guerra mondiale. Di guerra nucleare. Ma è davvero un azzardo?
Al di là della retorica, è proprio vero che la storia non ha insegnato nulla. Parrebbe proprio di essere stati condannati a questi terribili deja-vu. Mi trovavo in Spagna. Di tutto in quei giorni – sole, pioggia, nebbia e assordanti tuoni con relativi fulmini – quando realizzai questo reportage.
Era il 2016. I russi in Siria bombardavano Aleppo, i sauditi lo Yemen. Sugli schermi di mezzo mondo passavano immagini di devastazioni e morti. Tutto identico. Ora come allora, un tragico scenario che si ripete. Yemen, Siria, e oggi Ucraina. Fu definita da un inviato del New York Times “un fetido ammasso di macerie”, quello che rimaneva di Belchite.
Oggi rovine e pietre compongono un museo a cielo aperto degli orrori della guerra civile spagnola. È una città fantasma, ad una cinquantina di chilometri da Saragozza. Ad una ventina da Fuendetodos, dove nacque Francisco Goya. Questa è Belchite oggi. Abbandonata e lasciata in uno spietato oblìo per volere
di Franco, “affinché le rovine rimanessero a simbolo – della vittoria nazionale e come prova della barbarie rossa”.
È un’indignazione profonda quella che si avverte davanti a questi scheletri architettonici. La stessa di questi giorni. Ma le guerre sono tutte uguali. Macerie e edifici distrutti, come Gibellina o Poggioreale, in Sicilia.
A Belchite però il terremoto non c’entra nulla. Qui la distruzione è figlia dei colpi di mitragliatrici, cannoni e granate lanciate da uomini, che per prendere la città, hanno dovuto combattere casa per casa, come testimoniano gli scritti di alcuni inviati di guerra.
Prima della guerra civile spagnola, in quelli che furono i bei tempi, la cittadina si presentava con edifici ricchi di storia, due monasteri e tante chiese. Oggi le sue rovine ci mostrano la terribile realtà della guerra e della sua crudeltà. Come a Gibellina e Poggioreale, anche a Belchite, accanto alla vecchia, c’è la città nuova.
Pianta ortogonale, case bianche, qualche negozio, un paio di bar. Chi vi abita è costretto a vivere con una sorta di “plastico” della guerra in scala reale. Davanti agli occhi. Ma non è un male se si considera che, ancor oggi, una parte della Spagna crede, anziché nella memoria, in un’amnesia collettiva, quantomeno discutibile. Ma questo è un altro discorso.
“Belchite, pueblo viejo, ruinas historicas” (città vecchia, rovine storiche), è la scritta che campeggia sul cartello d’ingresso alla città fantasma, per curiosi, gruppi di turisti e storici contemporanei. Non è rimasto nulla della vecchia Belchite. Non c’è nessuno. Qualche cane, un paio di gatti e poi, solo desolazione e distruzione mescolati ad un silenzio inquietante. E d’estate il sole è lo stesso di quell’agosto del ’37, quando i repubblicani la attaccarono con ottantamila uomini, nell’ambito di un’ampia offensiva sul fronte aragonese.
L’iniziativa – studiata dai repubblicani per costringere il “caudillo” a dirottare uomini al centro e alleggerire così la pressione delle sue truppe nel Nord della Spagna – mirava a sfruttare l’effetto sorpresa. Niente fuoco d’artiglieria, pertanto. Né bombardamenti aerei prima dell’attacco, il “lavoro” – si fa per dire – tutto sulle spalle dei soldati.
A dispetto delle previsioni, le perdite furono enormi e, come se non bastasse, l’obiettivo si rivelò di scarsa importanza strategica. Nessuno arrivò a Saragozza, l’avanzata nelle regioni del Nord non rallentò di un solo passo. E come accadde per altre cittadine spagnole, infine, quel che rimaneva della la città fu ripreso dai nazionalisti, poco tempo dopo la sua conquista.
Per impossessarsi di Belchite, l’unica città fortificata della zona e porta d’accesso a Saragozza, l’esercito repubblicano impiegò quasi due settimane e gli ultimi giorni furono segnati da durissimi scontri. Raccontano i corrispondenti di guerra che alla fine, l’olezzo nauseabondo dei cadaveri in decomposizione era insopportabile.
Ernest Hemingway, anche lui corrispondente, che fece un giro tra le rovine, non poté fare a meno di una maschera antigas. Non c’è più bisogno di maschere ora, ma l’impatto è lo stesso devastante. Per chiunque. E camminando sui cumuli di macerie, ancor oggi ad ogni passo, sembra di sentire i colpi di mortaio, le urla dei soldati e i passi sconnessi dei civili che cercano scampo.
Non c’è più il miasma dei cadaveri che imputridivano sotto il sole più rovente della Spagna, come nel ’37, ma sono rimaste le macerie. Tali e quali. Case distrutte, chiese sventrate, ciottoli qua e là e muri ridotti a gruviera – sono gli effetti della tempesta di pallottole e granate riversate sull’abitato. Le strade, ridotte quasi a sentieri, sono quasi inghiottite dalle erbacce. Di porte e finestre non è rimasto nulla o quasi. Sfondati e crollati i pavimenti di paglia e pietrisco. Le facciate sembrano di cartone ed è un miracolo che alcune, dopo ottant’anni, stiano ancora in piedi, come il campanile tarlato di San Rafael. Questo è lo scenario contemporaneo.
Dopo averla distrutta, l’uomo non ci ha più messo mano, se non per recintarla e murare qualche porta per evitare l’ingresso pericolante. Al contrario di Guernica, che è stata ricostruita completamente e che per la memoria ci si affida soltanto alla tela di Picasso, Belchite vecchia è ormai una città morta, rimane però uno dei luoghi più simbolici della guerra civile spagnola. Ed ecco tornare la citazione di gattopardiana memoria dal duplice significato: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Ma il cambiamento non deve aver luogo. E la storia si ripete… .
Chi è Letterio Pomara
Fotoreporter professionista freelance dal 1979. Reportage fotogiornalistici a sfondo sociale, antropologico e ambientale, i temi della sua fotografia. Ha anche ritratto grandi personaggi della cultura, della scienza, della politica, dello sport, dello spettacolo e della moda, tracciandone fotograficamente i loro aspetti meno pubblici.
Da sempre alterna al lavoro professionale un percorso artistico personale e di ricerca. Anche se per motivi editoriali fotografa a colori, è votato alla convenzionale fotografia in bianco/nero e alla
soddisfazione delle sue esigenze estetiche. Anche per questo quasi sempre, le sue mostre sono in bianco/nero.
Artista poliedrico, Pomara, ha al suo attivo innumerevoli mostre e pubblicazioni. Sue monografie aziendali sono state utilizzate per importanti campagne pubblicitarie nazionali ed estere,
nonché per prestigiosi cataloghi. Ha scritto e pubblicato con le Edizioni San Paolo-Paoline, il libro di narrativa “Santiago. La fuerza del Camino”.
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