Design come arte per migliorarsi - QdS

Design come arte per migliorarsi

Design come arte per migliorarsi

sabato 04 Marzo 2023
Minamora_Italcementi

Le riflessioni di Makoto Fukuda e Lucia Giuliano, architetti, fondatori dello studio GiulianoFukuda

In questa rubrica, mi sono impegnato a voler mettere in luce le traiettorie d’efficacia inerenti il recupero, la ri-funzionalizzazione e la riqualificazione ambientale, e sociale, di brani del tessuto urbano o di interi contesti ambientali, particolarmente esposti al degrado. A ragione di ciò, ho operato (e continuerò a farlo per voi, miei cari lettori) il coinvolgimento di alcuni protagonisti di tali pratiche, di efficaci processi di determinazione di traiettorie di assolvimento di problematiche complesse, attraverso lo strumento del progetto.

Oggi ho inteso raccogliere le riflessioni di Makoto Fukuda e Lucia Giuliano, architetti, fondatori dello studio GiulianoFukuda e in prima linea nel progetto formativo di Abadir Accademia di Design e Comunicazione Visiva di Catania.

Luigi Patitucci. Bene, quali sono, secondo voi, le traiettorie di induzione alla partecipazione attiva della utenza, che noi designer possiamo innestare attraverso l’esercizio, gigantesco ed illimitato, inesauribile, del potenziale connesso alla frazione ludica, giorno per giorno, istante per istante? È un potenziale energetico incommensurabile ed estremamente efficace, se ci pensate, basterebbe metterlo in esercizio con le opportune procedure.

Makoto Fukuda. Se ci riflettiamo bene, le strategie e le visioni dei progettisti possono colpire o fallire. È quasi impossibile prevedere con precisione il loro esito. Quindi, sia quando progettiamo sia nell’insegnamento, dobbiamo pensare a come noi “creatori” affrontiamo le varie situazioni, con i limiti imposti dai luoghi, dai materiali e, naturalmente, con il nostro stato d’animo, senza perdere di vista il senso di quello che facciamo e come diamo forma alle richieste che ci vengono fatte come progettisti.

Il mondo del progetto è permeabile alla sensibilità progettuale e alle qualità individuali del designer. Pertanto, nella mia esperienza personale, considero l’attività di progettazione come un elemento costante del mio quotidiano e cerco di riprodurre la stessa dinamica anche nelle lezioni con gli studenti, alternando un approccio sperimentale libero, con esercizi pratici e rigorosi, mantenendo un raggio dell’area progettuale quanto più ampio possibile. Quella che tu chiami “frazione ludica” è fondamentale sia per il progettista che per i fruitori del progetto.

Nei miei scritti parlo spesso di Design Therapy, quale nuovo ‘bisogno’, in un’era in cui tale termine è stato destituito dal termine ‘desiderio’, ovvero della realizzazione di serie di azioni concrete nella nostra vita reale, per la realizzazione di un Paesaggio Risonante. Come pensate possa essere accolta, dagli enti competenti, tale procedura di realizzazione di uno scenario attivo nei nostri contesti territoriali?

MF. Parlando di design therapy, credo il progetto abbia sempre avuto la funzione di dotare le persone di nuovi dispositivi per migliorare qualcosa – il proprio stile di vita, l’abitare, ecc. – dunque in qualche modo soddisfare bisogni e realizzare desideri. Se sia stata una prerogativa del design o piuttosto dell’artigianato o di entrambi, non ne sono certo. Ma per prima cosa andrebbe compreso e definito quale sia uno stile di vita appropriato.

Non sono, invece, certo di aver colto il concetto di paesaggio risonante, quindi non so rispondere con sufficiente convinzione, ma se in esso potessi includere il concetto di distopia, posso dire che quando attraverso il paesaggio siciliano, mi sembra di essere caduto in un sistema entropico in cui l’ambiente e lo stile di vita delle persone che lo abitano sono in qualche modo “risonanti”.

Quali limiti possiede uno strumento di pianificazione e governo dei nostri contesti ambientali, quale è quello del PRG che, per definizione ha una durata illimitata, in un’era in cui i profili d’esercizio sempre più dichiarati, delle volte con grande spudoratezza e poca adesione ai feroci parametri propri della realtà concreta, sono quelli propri della Smart City?

M.F. Certo, le leggi urbanistiche italiane nel tempo hanno garantito i valori culturali e salvaguardato il patrimonio e  le sue particolari condizioni storiche, ma d’altra parte, dobbiamo riconoscere che le politiche urbane molto conservatrici sono inaccettabili, mera burocrazia a sostegno di convenzioni ideologiche. Io sono giapponese, quindi il mio punto di vista è pure sempre quello di chi viene da lontano e guarda con gli occhi dello straniero. In Italia, mi sembra che le aree geografiche con un’economia forte e le grandi città, siano in un certo senso migliori, perché supportate da infrastrutture e servizi (anche se non sempre messe a sistema in modo strategico), mentre i piccoli centri sembrano luoghi stagnanti con una sporadica presenza di progetti pubblici. Ci sono stati molti concorsi in Italia, ma solo una piccola parte di questa è stata poi realizzata. Tuttavia, strategie urbane a parte, la cultura architettonica italiana dagli anni 60 in avanti è molto ricca.

Mi sembra che l’idea di Smart City possa essere praticata nelle aree in cui le città possono essere informatizzate e i servizi possono essere aggiornati senza fare troppo affidamento sull’infrastruttura edilizia.

Come si conciliano questi due profili d’intervento, in un contesto urbano che non può fare più a meno di dover accogliere nella determinazione dei suoi parametri d’ingaggio e d’esercizio termini quali “temporaneità”, “provvisorietà”, “mutabilità”, “impermanenza”?

M.F. Date le politiche urbane rigide e stagnanti, sembra naturale essere insoddisfatti. Il “fare“ è una delle prove più importanti della vita umana. È così che mi sono sentito quando ho visto le sculture dei kibbutz in Israele. Pertanto, sono simpatizzante nei confronti delle attività e le azioni simili alla guerriglia. Tuttavia, conosciamo bene anche i limiti di questi sistemi.

L’esperienza di Favara con Farm Cultural Park potrebbe aver scosso il nostro scetticismo. Quando sono andato a visitarlo mi sembrava di essere in un sogno, ma era tutto reale! Certo, sembra che i promotori di Farm lottino tutti i giorni contro la burocrazia che li ostacola. Potremmo dire che loro sono l’avanguardia dello sviluppo urbano.

Lucia Giuliano. Se posso aggiungere, direi che le città da sempre sono fatte di parti dure e parti “molli”, destinate, quest’ultime, a non essere previste, controllate e gestite e che fanno delle città dei sistemi viventi, in continua mutazione e in costante movimento. Credo che il progetto della città debba sempre lasciare spazio a tutto quello che di impermanente, mutabile, dunque imprevedibile, possa in essa prendere forma.

Con il salto nel nuovo millennio, si è mostrata sempre più irrevocabile la questione del ridisegno, in maniera continuata, del nostro scenario di prossimità, specie alla luce della comparsa di nuove problematiche di relazione dinamica tra entità ed individui presenti in un contesto urbano, ora resi particolarmente pressanti in ragione della presenza e dell’alternarsi di crisi economico-finanziarie, ambientali, sanitarie.

LG. Credo che lo scenario di prossimità sia la nostra salvezza, in qualunque scala di città ci si trovi, soprattutto nei sistemi urbani medi e grandi. La città dei quindici minuti, cioè quella città che consenta a ciascuno di noi di avere in un raggio “umano” i servizi e le infrastrutture base del nostro vivere quotidiano, sia la strada da percorrere per ripensare le nostre città in chiave policentrica. Ovviamente questo significa che qualcuno dovrebbe preoccuparsi di garantire servizi, scuole e infrastrutture per ogni quartiere e per ogni cittadino. Mi sembra che in Sicilia ci sia ancora tantissima strada da fare.

Già il mio amico Francesco Morace, sociologo e fondatore del Future Concept Lab descrive la penisola italiana come un immenso, risonante, emittente Laboratorio creativo dal potenziale gigantesco. Pensate che la soluzione possa passare attraverso la costituzione di una costellazione di Design Lab Permanenti, parte di una più grande sovrastruttura, capace di poter accogliere, in tempo reale, istanze e professionalità altamente specialistiche al suo interno?

LG. Certamente immaginare un’Italia costellata di centri permanenti di ricerca che possano mettere insieme il grande patrimonio culturale del nostro paese, fatto di sapienza materiale e non solo, con le nuove istanze del progetto contemporaneo è molto affascinante. Come dice Morace l’Italia è un grande laboratorio il cui potenziale è evidente e riconosciuto, la questione è che la capacità di attivare questo potenziale non è distribuita uniformemente in tutta la penisola, isole comprese. Mettere tutto a sistema potrebbe aiutare ad attivare in modo organico, da nord a sud, le potenzialità e il valore disseminato che non sempre emerge, né produce economia e benessere.

Dal cucchiaio alla città. A mio avviso, questa frase potrebbe essere il necrologio di tutta la stagione dell’utopia modernista, spazzata via dalla pochezza dei suoi contenuti umani. In ogni caso, oggi potrebbe essere mutuata in dal cucchiaio alla città e dalla città al cucchiaio!. Chiudendo il cerchio, una volta per tutte, senza indugi, con la ferocia, benefica ed augurale, persino formativa, del buon padre/madre di famiglia, questa nuova generazione di designer sarà chiamata all’assolvimento di un compito tanto entusiasmante quanto gravoso, quello della realizzazione di un nuovo scenario esistenziale. Quale potenziale di accoglimento di questa sfida, tutta imperniata attorno alle questioni di progetto, intravvedete in questa generazione? 

MF. Ad essere sinceri, nella mia esperienza professionale a Barcellona ho avuto davvero l’opportunità di sperimentare la professione in immersione totale dal cucchiaio alla città, con un livello di soddisfazione abbastanza alto. Adesso,  devo ammettere che, vivendo a Catania, ho ahimè ridotto le possibilità di poter progettare a scala urbana. A Barcellona, il progetto urbano rinnova la città ogni dieci-quindici anni, spesso accompagnato da un evento simbolico, quali sono state le Olimpiadi nel 1992, Il Forum delle culture nel 2004, sino alla trasformazione dei sistemi di viabilità in favore dei pedoni e delle biciclette nel periodo della pandemia. E ogni volta, la trasformazione di nuove parti di città, coinvolge il mondo del progetto in tutti i suoi ambiti. In tal senso, è proprio vero che Barcellona è un caso raro nell’area del Mediterraneo, perché è una delle poche città in cui la politica urbana diviene un motore potente, capace di attivare operazioni di progettazione a tutte le scale ed a tutti i livelli. Quello di Barcellona è un buon riferimento da raccontare agli studenti, anche se molte cose non si capiscono fino in fondo se non si vivono. Vivere e lavorare in una città che si trasforma costantemente è una grande fonte di ispirazione per chi lavora nel design e nell’architettura. Crescere come progettisti in città che non cambiano e non si trasformano, è come allenare uno sportivo tenendolo seduto in poltrona.

LG. Un mio pensiero, rispetto agli studenti e le nuove generazioni di designer: penso che il nostro lavoro come educatori al progetto serva solo a trasmettere il massimo possibile un modo di stare al mondo, innestare un atteggiamento critico e sempre carico di curiosità rispetto a quello che succede intorno a noi,  poter essere menti trasformative sempre. Noi doniamo gli strumenti, ma le nuove visioni dovranno costruirle loro. Mi sembra anche, che le nuove generazioni, tanto diverse dalla nostra, potranno solo sorprenderci, nel bene e nel male.

La Natura si riappropria del suo potenziale creativo, esibendo una ricchezza di contenuti, di elementi generativi estremamente seducenti e, di una forza devastante, ed io non nutro ormai alcun dubbio, sull’inefficacia di un mondo troppo progettato, troppo disegnato, un mondo ostile ad ogni possibilità di riconoscimento del vivere umano. Quale è il vostro pensiero in merito a tale riflessione? 

MF.  Dopo il terremoto che ha colpito la regione del Tohoku in Giappone nel 2011, e ancora dopo lo tsunami e il disastro della centrale nucleare di Fukushima, il tema dei progetti di ricostruzione in Giappone è stato sempre centrato sul rapporto/convivenza con la natura. Una natura, che ha il potere di annientare e distruggere tutto in pochissimo tempo. La questione è stata però sempre affrontata in modo unilaterale dagli architetti “funzionari” e dai tecnici delle grandi imprese, che avevano il compito di costruire infrastrutture a larga scala, senza mai confrontarsi con gli architetti “pensanti” del Giappone, conosciuti in tutto il mondo per la loro capacità di generare numerose riflessioni intorno alla questione del  progetto. Così i funzionari ed i tecnici, hanno costruito grandi argini per bloccare possibili tsunami, e il villaggio di pescatori è stato ricostruito tra le recinzioni e le montagne, vicino ad un mare ricco e pescoso. In altre parole, si è cercato di contrastare la natura con la forza e con costi enormi, mentre gli architetti “pensanti” suggerivano strategie per non entrare in competizione con la natura, evacuando quei luoghi per  mantenere una certa distanza dal mare, dunque spostando i villaggi sulle colline. Alla fine gli architetti di fama internazionale si sono limitati a progettare scuole ed edifici pubblici, prendendosi comunque le loro soddisfazioni.

Durante il mio primo viaggio in Sicilia ho visitato il cretto di Burri a Gibellina, mi ha colpito molto la forza dell’arte in quei luoghi distrutti da un evento naturale. Così come, tanti anni dopo, mi ha colpito Favara, forse per lo stesso motivo, ho intravisto quella capacità dell’azione artistica di poter interpretare, in modo dirompente, le situazioni fragili e di ribaltarle. Dunque anche il rapporto con la natura.

“In qualunque caso si può simulare, tranne quando si tratta dei luoghi. Un uomo, in ogni condizione, deve potersi mettere in un angolo con la certezza che è il suo, almeno per un po’, o che nessuno lo manderà via di lì. Tutto il resto viene dopo”. Questa  frase, tratta da “Un uomo temporaneo”, di Simone Perrotti (Frassinelli, 2015, NdA), ci introduce al quesito inerente all’attualità del concetto di Genius Loci ed al riconoscimento, da parte degli individui sociali, in una matrice identitaria legata al contesto ove si snoda la nostra esistenza. Cosa accade nell’era digitale, ha ancora senso parlare di taluni concetti, per noi dapprima considerati imprescindibili, nell’esercizio della questione di progetto? 

MF. Credo che l’era digitale possa aprire nuovi interessanti scenari all’interpretazione del genius loci. Mi viene in mente a tal proposito la mia esperienza come progettista nel team che si è occupato del nuovo stadio del Barça, il Camp Nou del FC Barcelona.

Attraverso un software molto sofisticato, lo stadio più grande d’Europa è stato convertito in una enorme nuvola di punti e da questo emerse che, l’edificio costruito non fosse la riproduzione esatta del progetto. Questo succede naturalmente in tutti i progetti tranne forse nel caso della casa Wittgenstein che il filosofo supervisionava con meticolosità fanatica.
Ecco, gli strumenti digitali sono capaci di rilevare tutte le irregolarità di un edificio così come di un luogo, tracciando una nuvola tridimensionale di punti con un’accuratezza di informazioni che va di gran lunga ben oltre quello che serve in un vero cantiere e, addirittura, oltre la nostra percezione e la nostra capacità di elaborare informazioni.

Su un altro fronte, mi viene in mente l’opera di un artista catalano che vive in Brasile, Daniel Steegman che, nel progetto Phantom (Kingdom of all the animals and all the beasts is my name), ci mostra scansioni tridimensionali del mondo naturale, servendosi dello strumento digitale per poter trarre nuove percezioni dello spazio e dei luoghi, mostrando linee, geometrie invisibili e nuovi punti di forza che possono aiutarci in una nuova restituzione e interpretazione della realtà.

Voglio dire, con questi due esempi, che la digitalizzazione potrebbe aiutarci nel dare un senso nuovo a tutto quello che abbiamo sempre inteso come genius loci e, le possibilità in tal senso, sono davvero molto affascinanti.

Conosco il vostro designer preferito, sono io. Ahahahahah… Scherzi a parte, avete un designer che amate profondamente? Un Autore che vi appassioni in maniera irriducibile al punto da indurre i giovani allievi ad analizzarne i criteri d’intervento, per la costituzione di un loro personalissimo approccio di metodo nell’ambito di diverse discipline di progetto, differenti ambiti applicativi. 

LG & MF. Non siamo assolutisti nelle nostre predilezioni e facciamo fatica a scegliere un designer perché sono davvero tante le figure che osserviamo e ammiriamo. I fratelli Bouroullec, i fratelli Campana, Charles and Rey Eames, Sory Ianagi, Issey Miyake, Alvar Aalto, Enric Miralles, la lista è davvero lunghissima. Molti di loro hanno la capacità di creare ponti tra mondi e discipline, di essere interpreti sapienti e allo stesso tempo rivoluzionari di tradizioni, luoghi, materiali e visioni. Agli studenti diciamo di studiarli, capirli e non emularli. Il progetto è frutto di una sintesi assolutamente personale di tutto ciò che abbiamo vissuto e studiato, dunque non ci resta che vivere (e studiare) intensamente.

Il vostro oggetto preferito?

L.G. Così come non siamo capaci di scegliere un designer sugli altri, è difficile per noi pensare ad un oggetto in assoluto preferito. Siamo entrambi amanti della cultura materiale in tutte le sue espressioni e manifestazioni (quasi tutte). Amiamo gli oggetti di design ma anche gli oggetti nati dalla sapienza manuale, dalla semplicità delle culture povere e dalle tradizioni, amiamo gli oggetti ricercati ma anche gli oggetti del quotidiano apparentemente banali. Davvero impossibile scegliere un solo oggetto!  

Una famiglia di oggetti che amiamo, e che è spesso oggetto di lezione in accademia, è quella dei “super normali” raccolti in una mostra e in un libro curato da Jasper Morrison e Naoto Fukasawa. Oggetti compiuti, che fanno parte del nostro quotidiano, a volte anonimi a volte progettati, ma sempre appartenenti a quella sfera in cui è l’uso a farla da padrone di là della forma e dei materiali o ancora di là del piacere estetico che possano donarci. Semplicemente normali.  

Biografia

Giuliano Fukuda è uno studio di progettazione e design fondato da Lucia Giuliano (Catania) e Makoto Fukuda (Tokyo). Entrambi hanno vissuto e lavorato per diversi anni a Barcellona, collaborando con gli studi di Arata Isozaki, Enric Miralles e Benedetta Tagliabue e Toyo Ito. A Barcellona hanno avuto l’opportunità di sperimentare il progetto a diverse scale dall’architettura, agli interni, gli allestimenti, il paesaggio e il prodotto, scoprendo il potere del design come pratica trasformativa.
Nel 2019 si sono trasferiti in Sicilia dove sono impegnati nel progetto formativo dell’Accademia Abadir e nella loro attività di progettazione con l’obiettivo di alimentare la cultura del progetto in Sicilia.

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