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Fabio Gabrielli  |
giovedì 29 Dicembre 2022

L’umano è abitato da una inesorabile tendenza a generalizzare

L’umano è abitato da una inesorabile tendenza a generalizzare, a non riconoscere ambiti e sfumature del linguaggio, espressioni polimorfiche della vita, ma a incorporare ciò che si avverte magari come problematico, complesso in un’unica definizione. La cosa ci conforta, ci rende apparentemente più sicuri, in realtà più pigri, più docili ai codici di semplificazione estrema, di infantilizzazione della realtà.

Questa tendenza, per esempio, avviene con la parola disagio, di uso frequente, sovente irritante. Lo spirito del nostro tempo vuole che le naturali fluttuazioni dell’anima, le inaggirabili ferite che scandiscono quotidianamente la vita, non siano più consegnate al governo che dovremmo avere di noi stessi, a pratiche autonome di confronto e superamento, ma al disagio, e questo alla psicologia, e poi alla psicofarmacologia. Non che esse siano inadeguate o inutili nelle prassi di cura, anzi, il contrario, ma non al punto da arrivare alla psicologizzazione del mondo.

In buona compagnia c’è anche la sessuologia, che, da feconda pratica clinica ed educativa, rischia di diventare codice, procedura, catalogo, regola definitiva. La parola greca logos, che troviamo in psicologia, in psicofarmacologia, in sessuologia, non significa solo “parola, ragione, discorso”, ma anche “relazione, proporzione”, quindi misura. Sembra che ci sia sempre bisogno di qualcuno, un sapiente, una guida, un esperto, che ti dica come affrontare le naturali resistenze del mondo alla tua presa, i naturali ostacoli della vita, così come fare sesso, sulla base di almeno cinquanta sfumature. Tutto è regola, misura, osservazione, fruibilità, quindi controllo.

Chi si sottrae al controllo, alla procedura, al calcolo, è fuoriscena, cioè disagiato, da escludere dalla buona comunità dei sani, oppure da ricondurre ad essa tramite una rieducazione della sua presunta patologia. Parole fondative della nostra civiltà, come cura di sé, governo di sé, tecnologie di sé, esercizi spirituali, sono ormai catalogate come reperti filosofici, astratte speculazioni, senza carne, povere di mondo, prive di mondo. La cura di sé, spogliata da un certo sentimentalismo di fondo o dalla sterilità dei luoghi comuni, è pratica di vita. Essa implica fedeltà alla propria vocazione, perseveranza nel testimoniarla di fronte alle resistenze del mondo, prudenza.

Quest’ultima, la prudenza, è una virtù assai preziosa nella cura di sé, poiché non implica, come si ritiene, una fuga dalle nostre iniziative, ma una valutazione rigorosa e vissuta delle circostanze, delle nostre effettive qualità, per poi intraprendere con coraggio e passione il nostro cammino. Dalla nostra capacità di ergerci come centri creativi di resistenza, dipende la nostra consistenza di uomini.

In questo senso, il disagio è sovente una buona copertura per rendere patologico ciò che è nient’altro che vita che reclama vita, sforzo, tensione, desiderio a fare di noi stessi biografie mai assimilabili ad altre biografie.

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