Il tema di fondo sul quale il management è chiamato a rendere conto è proprio questo: il profitto che stiamo producendo è fertile o sterile?
L’obiettivo primario dell’impresa è lo sviluppo, realizzato anche attraverso il profitto. Senza profitto non c’è sviluppo né in un’economia capitalista, né in un’economia collettivizzata. Ma il profitto non è sufficiente per lo sviluppo. Perché c’è il profitto senza sviluppo, c’è il profitto senza qualità, c’è il profitto monopolistico, c’è il profitto senza progresso dell’accumulazione tecnologica e della conoscenza organizzativa, c’è il profitto che deriva solo da connivenze di chi gestisce le casse pubbliche, c’è il profitto che devasta la terra, c’è il profitto che degrada le città, c’è il profitto che è solo apparente perché parte dei suoi costi di produzione si scaricano in bilanci diversi da quelli dell’impresa, c’è il profitto che miete solo e ha smesso di seminare; c’è il profitto sterile che non svolge più la sua funzione fecondatrice; c’è il profitto che, in realtà, è ormai solo consumo di quanto altri hanno accumulato nell’impresa; perché ci sono i profitti di guerra; perché ci sono i profitti di regime; perché c’è il profitto che deriva da spericolate speculazioni finanziarie; perché c’è il profitto tesaurizzato e non distribuito con equilibrio tra i fattori della produzione. Se il profitto è sterile o fertile, non lo può stabilire solo la proprietà o il management. Questi ha e deve avere la responsabilità di elaborare il progetto e di condurlo in porto. Ma la sua azione è sottoposta a rendiconto non solo davanti agli azionisti, ma davanti al lavoro, ai risparmiatori, alla cultura, all’opinione pubblica.
Il tema di fondo sul quale il management è chiamato a rendere conto è proprio questo: il profitto che stiamo producendo è fertile o sterile? E perché ci deve essere questa resa di conto? Ma perché l’impresa, pur di proprietà e di gestione privata, è strumento strategico e operativo di sviluppo collettivo. Vedete che anche per questa via siamo risaliti alla concezione d’impresa. E attraverso questa a una concezione di società, che è quella che chiamiamo, per brevità, capitalismo democratico ed una concezione di impresa che chiamiamo: impresa responsabile.
Con questa impostazione anche il dibattito su etica e profitto, come viene di solito sviluppato e la connessa ricerca di un catechismo d’impresa, che chiamano etica degli affari, appare futile e va sostituito da una ricerca, di natura filosofica, sull’impresa responsabile.
Queste sono le parole con cui cercavo, più di trent’anni fa, di illustrare ai nostri studenti in Bocconi il tema: Impresa, Valori, Strategia, Educazione alla complessità e qualità del profitto. Allora erano parole contro corrente e ci si sentiva molto isolati. Ora, fortunatamente, stanno riemergendo e quelli che continuano a sostenere la visione oltranzista del profitto fine a se stesso, appaiono sempre di più come i soldati giapponesi che nel dopoguerra uscivano dalla giungla per continuare a combattere la guerra che era finita con la resa al generale McArthur.
Ma per consolidare questa visione del lavoro e dell’impresa responsabile, civile, umanistica, è necessario ancora molto lavoro e molta collaborazione interdisciplinare. Basti pensare alla tragedia dell’ILVA di Taranto che è un monumento all’irresponsabilità e per tanti versi, alla criminalità di una intera classe dirigente (questa sì interdisciplinare!) che ha cercato di far credere che esistesse una scelta tra lavoro e salute, mettendo in ginocchio un’intera città. Per ragioni di spazio non posso sviluppare questa altra importante e dolorosa lezione, ma non era possibile comunque non ricordarla in questa sede.