Il lavoro senza risultati è inutile e umiliante - QdS

Il lavoro senza risultati è inutile e umiliante

Il lavoro senza risultati è inutile e umiliante

giovedì 25 Luglio 2024

Excusatio non petita, accusatio manifesta. O, se volete, qui s’excuse, s’accuse. O ancora, la scusa nasconde un’accusa.
Perché questo preambolo strambo? Perché notiamo sempre di più tanta gente che, anziché affrontare con coraggio ed umiltà i problemi per tentare di risolverli, spiega al colto e all’inclita le ragioni per cui è incapace di risolvere i problemi medesimi.

La mentalità generalmente diffusa è quella secondo la quale il tempo non viene mai considerato, né quando si lavora, né quando si ozia, come se fosse una variabile indipendente, come se non fosse quel metro costante che misura la nostra vita dall’attimo in cui usciamo dal ventre materno quello in cui entriamo nella cassa mortuaria.

Se le persone avessero la consapevolezza dell’importanza e del valore del tempo, si comporterebbero sicuramente diversamente e nessuno desidererebbe solo oziare. Non solo, ma non si esalterebbero falsi valori come lo svago, il divertimento, il tempo libero e simili, giusti se nella misura adeguata, ma iniqui se vengono prima del proprio dovere.

Questo ragionamento ci porta a sottolineare come il lavoro di ciascuno di noi, che viene fatto con fatica, non sia un fine bensì un mezzo, con la conseguenza che non c’è l’abitudine a misurarne i risultati.
Dal che si può dedurre il rovescio di quanto precede e cioè che “un lavoro senza risultati è inutile e umiliante”. Ecco, non c’è nella nostra popolazione, soprattutto in quella meridionale, l’abitudine al risultato.

A che serve lavorare tutto il giorno mettendo un mattone sull’altro se alla fine non si costruisce un fabbricato? A che serve andare in fabbrica a maneggiare computer e macchinari se non escono poi i prodotti finiti? A che serve mungere le vacche, portare il latte negli apparati produttivi e da essi trarne tutti i prodotti che poi vengono messi in commercio? E, per estendere il principio, a che serve andare a lavorare nelle Pubbliche amministrazioni di tutti i livelli e in apparati consimili se non vengono prodotti servizi di qualità e quantitativamente idonei ai costi che si sostengono? L’elenco degli esempi è lungo e ci asteniamo dal prolungarlo.

Quanto è bello pensare; d’inedia si può morire. Pensare in modo costruttivo, pensare a progetti da realizzare o anche fantasticare su cose che non sono alla nostra portata e che idealmente potrebbero esserlo.
Pensare all’amicizia, a come consolidarla, a vedersi con le persone care o la prima volta per discutere di argomenti seri, con pazienza e senso di responsabilità, al fine di crescere mentalmente e moralmente. Come fanno, ad esempio, gli arabi a stare sul bordo della propria casa e a non scacciare la mosca dal naso? Non sappiamo, eppure lo fanno. Sono condannabili? Non sappiamo neanche questo, ma sappiamo che comportamenti come quello indicato non sono esclusività degli arabi perché anche fra gli occidentali, fra gli asiatici, fra gli americani, gli africani ed altri c’è tanta gente che muore d’inedia prima ancora di morire fisicamente.

Intendiamoci, ognuno può spendere la propria vita come ritiene meglio, però non ha il diritto di lamentarsi, come se le contrarietà fossero colpa degli altri, della sfortuna o degli astri. Non è così.

Non è così perché dovrebbe essere diffusa, ma non lo è, la “cultura del merito”, secondo la quale ognuno riceve per quanto, prima, dà. Se si facesse un esame di coscienza emergerebbe come l’egoismo individuale prevale, secondo il quale si chiede e si chiede senza prima domandarsi cosa si dà.
Il discorso che poniamo vale sia nel pubblico che nel privato, fra tutte le persone che dovrebbero avere una coscienza, che non è certamente La coscienza di Zeno.

È difficile far diffondere la cultura del merito perché quella del favore conviene sempre, ma soddisfa poco se non istinti animaleschi stupidi e dannosi, perché – e qui ritorniamo da dove siamo partiti – qualunque cosa si faccia deve avere un risultato. Ma, se chiedete in giro, quanti hanno individuato il punto d’arrivo della loro attività di qualunque genere? Certamente pochi e sono quelli che reggono il sistema e, se ci vogliamo allargare, l’umanità intera.

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