Libero Grassi, quella forza dirompente della legalità per un esempio che troppo spesso viene dimenticato - QdS

Libero Grassi, quella forza dirompente della legalità per un esempio che troppo spesso viene dimenticato

redazione

Libero Grassi, quella forza dirompente della legalità per un esempio che troppo spesso viene dimenticato

Roberto Greco  |
giovedì 29 Agosto 2024

Oggi l’anniversario dell’omicidio dell’imprenditore, che sfidò apertamente la mafia opponendosi al “pizzo”

PALERMO – Libero Grassi ebbe il coraggio di opporsi alle richieste di racket della mafia e di uscire allo scoperto denunciando gli estorsori. La sua condanna a morte arrivò con la pubblicazione sul “Giornale di Sicilia” di una lettera, da lui firmata, sul suo rifiuto a cedere ai ricatti della mafia. La sua lotta proseguì in televisione, intervistato da Michele Santoro a Samarcanda su Rai Tre, e anche su una rivista tedesca colpita dal suo comportamento positivo volto a denunciare i mafiosi. Ma gli industriali di Palermo mal lo sopportavano. Dissero che voleva solo farsi pubblicità, che questa storia del pizzo non esisteva, e poi, anche se fosse esistita, se si pagasse tutti, si pagherebbe meno. In molti gli rifiutarono l’appoggio, anche se molti palermitani lo spingevano ad andare avanti, a tenere alta una bandiera di moralità. La mattina del 29 agosto 1991 Libero Grassi si alzò e si vestì per andare, a piedi, alla Sigma, l’azienda di famiglia che produceva pigiameria maschile e che, fino al 1991, era arrivata a occupare un centinaio di dipendenti. In via Alfieri lo aspettavano Marco Favaloro, in macchina, e Salvatore Madonia, il figlio del boss, che lo stavano pedinando da una settimana. Madonia scese dalla macchina e gli sparò con una pistola che teneva nascosta dentro un giornale. La fine fisica, ma non morale, di un uomo che della legalità fece la propria ragione di vita.

Chi era Libero Grassi

Nato a Catania, si trasferì a Palermo all’età di 8 anni. Fu chiamato dai genitori Libero in ricordo del sacrificio di Giacomo Matteotti. La famiglia era antifascista e il ragazzo maturò anch’egli una posizione avversa al regime di Benito Mussolini. Nel 1942 si trasferì a Roma, dove studiò Scienze politiche durante la seconda guerra mondiale. Per non andare in guerra, entrò in seminario, da cui uscì dopo la liberazione tornando a studiare passando, però, alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo. Malgrado volesse fare il diplomatico, proseguì l’attività del padre come commerciante. Negli anni Cinquanta si trasferì a Gallarate, dove entrò nel meccanismo dell’imprenditoria. Tornò poi a Palermo per aprire uno stabilimento tessile. Nel 1961 iniziò a scrivere articoli politici per vari giornali e in seguito si diede anche alla politica attiva nelle fila del Partito Repubblicano Italiano. Dopo aver avuto alcuni problemi con la fabbrica di famiglia, venne anche preso di mira da Cosa nostra che pretendeva il pagamento del pizzo, fino a quella tragica giornata di agosto del 1991.

La morte di Libero Grassi fu davvero un momento di svolta

Dopo la sua morte, il 20 settembre dello stesso anno, Santoro e Maurizio Costanzo dedicarono una serata televisiva a reti unificate, Rai e Fininvest, alla figura di Libero Grassi. Per il suo omicidio furono condannati nel 2004, tra gli altri, Totò Riina, Bernardo Provenzano e Pietro Aglieri. La mafia lo ritenne un omicidio pedagogico, di quelli che prevedevano di colpirne uno per educare tutti gli altri. Ma si sbagliavano, e se ne sarebbero accorti presto perché la morte di Libero Grassi fu davvero un momento di svolta nella storia del movimento antimafia e antiracket. Perché aveva dimostrato di essere Libero di nome e di fatto.

Su cosa sia cambiato negli ultimi 33 anni riguardo al fenomeno delle estorsioni, anche a seguito del sacrificio compiuto da Libero Grassi, abbiamo intervistato il dottor Antonio Sfameni, attuale capo della Squadra Mobile di Catania ma con una lunga esperienza anche nel capoluogo siciliano.

Il dottor Antonio Sfameni, capo della Squadra Mobile di Catania

Dottor Sfameni, inizierei da sua una valutazione generale rispetto al cosiddetto pizzo…
“Il fenomeno non è assolutamente scomparso anche perché si tratta di una forma di controllo del territorio oramai radicata nel tempo, che si somma al traffico e spaccio di sostanze stupefacenti e all’usura. Lo abbiamo visto più volte nelle diverse operazioni che abbiamo condotto. È pur vero che si tratta di un fenomeno sommerso e il denunciante, più che un estorto o un minacciato, si vergogna di denunciare. Estorsione, usura e interposizione fittizia, che spesso trascuriamo, sono elementi importantissimi per l’organizzazione criminale soprattutto mafiosa. Non sottovalutiamo che il prestanome, nei fatti, è una pedina importante per il controllo del territorio perché permette l’esercizio del potere nella provincia etnea. Sul nostro territorio, inoltre, esiste una dicotomia tra organizzazioni riferibili a cosa nostra e organizzazioni parimenti sanguinarie ma diverse dai Santapaola-Ercolano che si appoggiano ai Nizza, ai Mazzei, ai Cursoti milanesi, ai Pillera Puntina, ai Cappello-Bonaccorsi”.

Palermo e Catania sono due province della stessa Isola ma con caratteristiche molto diverse, parlando di criminalità organizzata di stampo mafioso…
“Il pizzo, a Palermo, è importante proprio per il controllo del territorio. Tutti pagano il pizzo, anche il ‘panellaro’ che deve sborsare pochi euro. A Palermo c’è una differenza organizzativa della gestione del territorio, difatti parliamo dei mandamenti che sono entità territoriali. A Catania, invece si parla di clan, con una tipologia più simile a quella delle cosche calabresi o campane, che portano il nome delle famiglie di riferimento mentre a Palermo i mandamenti sono denominati in maniera toponomastica come Noce o Porta Nuova. A Catania non esistono confini territoriali di competenza per cui possiamo trovare parti della città in cui operano contemporaneamente i diversi clan”.

Le ultime indagini effettuate a Palermo hanno fatto emergere che i taglieggiati, in cambio del pizzo pagato, chiedono al medesimo taglieggiatore di scalzare concorrenti, di recuperare crediti e refurtive, di dirimere controversie con i dipendenti o risolvere problemi di vicinato, una sorta di variante degenerativa del fenomeno estorsivo, che è sempre esistita, ma che oggi ha assunto una dimensione dominante. Qual è la situazione a Catania?
“Il fenomeno è minore su Catania, anche se la politica del cosiddetto ‘cavallo di ritorno’ e del supporto per dirimere le controversie esiste, in una sorta di scambio di favori. La grande differenza è che la mafia dei Santapaola-Ercolano, per esempio, è più imprenditoriale, una mafia che va a braccetto sia con la politica e sia con il mondo dell’imprenditoria. Fondamentali, anche in questo caso, sono i prestanome e gli accordi di protezione non ci sono restituiti dalle intercettazioni e si riscontrano in minima parte. La forma estorsiva consiste anche nella cessione di veri e propri servizi, come la guardiania, il contratto con gli istituti di vigilanza vicini ai clan, il vincolo di assunzioni di personale che appartiene all’organizzazione. Abbiamo avuto esempi di gruppi imprenditoriali che, pagando meno il personale e non ottemperando, ad esempio, alla denuncia degli infortuni sul lavoro, abbassavano i costi di gestione e si presentavano sul mercato con proposte più vantaggiose di quelle degli imprenditori che, invece, pagavano regolarmente le tasse. Di fatto imprese che agiscono ‘drogando’ il mercato”.

Qual è, invece, la situazione culturale a Catania?
“Nel capoluogo etneo c’è un grande movimento culturale che è basato su grandi tradizioni, come quella universitaria o quella nel campo musicale. Di fatto, però, in una città come Palermo è nata un’associazione che si chiama Addiopizzo, che al momento della sua nascita ha invaso la città di volantini su cui c’era scritto ‘Un popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità’. A Catania però un movimento analogo, nonostante l’alto numero di morti per mano mafiosa, non c’è stato. In realtà Catania assomiglia, se mi è consentito un paragone letterario e riguardo a certi aspetti, più alla Gomorra narrata da Roberto Saviano, essendo molto più simile alla realtà napoletana”.

Quali sono i sistemi di contrasto al fenomeno mafioso che avete a disposizione?
“Rispetto agli esordi del contrasto alla criminalità mafiosa oggi c’è un’organizzazione strutturata che permette alle forze dell’ordine di essere più efficiente e presente. Sto parlando della Direzione distrettuale antimafia, del coordinamento derivante dai distretti delle Corti d’Appello che evitano sovrapposizioni tra le diverse forze di polizia che potrebbero risultare dannose, sia da un punto di vista operativo sia da un punto di vista delle indagini e della loro resa e dell’esistenza di una Direzione nazionale antimafia che coordina a livello nazionale. A questo si aggiunge che ogni forza di polizia ha un proprio coordinamento, pensiamo allo Sco per la Polizia di Stato, allo Scico della Guardia di Finanza o al Ros dell’Arma dei Carabinieri”.

Parliamo della vostra attività d’indagine…
“Oggi un’estorsione, salvo che non sia denunciata, fatto che però non accade di frequente, è rivelata e confermata dall’attività d’indagine. Lo strumento di maggior efficacia, a tutt’oggi, sono le intercettazioni, che possono permettere di scoprire la piramide di comando nell’ambito di una serie di reati, come nel caso del traffico di stupefacenti, del traffico di armi e delle indagini sulle mafie. Solo per citarne alcune, proprio le intercettazioni sono state fondamentali per le operazioni ‘Consolazione’, ‘Odissea’, ‘Sabbie Mobili’, ‘Zeus’ fino all’ultima ‘Ombra’, condotte dalla nostra Squadra Mobile. A tutto questo, però, si somma il fattore umano, quell’intuito, quella capacità di andare oltre la singola frase intercettata, quell’innata capacità di avere una visione d’insieme e di correlare i singoli elementi per inserirli in un quadro più grande. Sto parlando del ‘fiuto’, dell’acume dell’investigatore che risulta essere il maggior valore aggiunto dei nostri uomini e delle nostre donne e che, nonostante il grande supporto tecnologico che oggi abbiamo a disposizione, continua a fare la differenza”.

Economia condannata alla permanenza nella trappola della povertà

PALERMO – Da una ricerca approfondita pubblicata su “Journal of Comparative Economics” a firma Balletta e Lavezzi nello scorso mese di dicembre, che ha analizzato il fenomeno dell’estorsione, il cosiddetto pizzo, nei confronti di aziende che operano in settori legali da parte di un’organizzazione criminale che massimizza il profitto, emerge prepotentemente che diversi Paesi nel mondo sono afflitti dalla presenza della criminalità organizzata. Questo fenomeno sembra particolarmente diffuso in alcuni Stati dell’America Latina, dell’ex blocco sovietico e dell’Asia orientale. Tra i Paesi europei, l’Italia si distingue come un caso peculiare poiché alcune regioni del Sud, vale a dire Sicilia, Calabria, Campania e Puglia, sono vittime della presenza di potenti mafie che rappresentano ancora una seria minaccia per il loro sviluppo.

La presenza di una forte organizzazione criminale nella regione è un sintomo di bassa qualità e debolezza istituzionale. La criminalità di stampo mafioso si propone sul territorio con il ruolo di fornitore di governance extra-legale, implementando il proprio sistema di tassazione, fornendo, in cambio, un servizio specifico, la protezione, che altrimenti sarebbe fornito dallo Stato. In particolare, impongono l’estorsione, ossia l’estrazione forzata di risorse, alle aziende che operano in settori legittimi, sotto la minaccia di punizioni per inadempienza.

I settori più esposti alle estorsioni

I settori più rappresentati nel campione analizzato, e che dunque appaiono maggiormente esposti all’estorsione, sono quelli delle costruzioni, commercio al dettaglio e all’ingrosso, alberghi e ristoranti, trasporti terrestri, commercio e manutenzione di autoveicoli e motocicli, industrie alimentari. Inoltre, la relazione che lega il pizzo alla dimensione d’impresa è strettamente concava, ovvero il pizzo pagato varia in modo meno che proporzionale rispetto alla dimensione dell’impresa. In particolare, un aumento della dimensione del 10%, misurata ad esempio con le immobilizzazioni totali o il numero di addetti, si traduce mediamente in un aumento dell’1% del pizzo pagato. Questa elasticità varia però in funzione del settore merceologico e risulta più elevata nelle costruzioni e nei trasporti. L’aliquota varia da circa il 40% per le imprese di medio-piccole dimensioni a circa il 2% per le imprese medio-grandi.

Dall’analisi emerge inoltre che la legge economica applicata dalla criminalità organizzata per la determinazione della percentuale di pizzo da applicare è fortemente regressiva e si comporta come un costo quasi fisso, colpendo in modo sproporzionato le piccole imprese. Per le piccole imprese che riescono a sopravvivere sul mercato, diventa quasi impossibile crescere utilizzando risorse interne perché la mafia riesce ad appropriarsi di una percentuale molto alta di profitti. Nel contesto siciliano, in cui l’accesso a risorse esterne come il finanziamento bancario è particolarmente difficile anche a causa della presenza stessa della mafia che rende la concessione di credito particolarmente rischiosa e quindi costosa, l’estorsione limita fortemente la possibilità per le piccole imprese di crescere e di innovare.

Risulta dunque più che mai evidente che il sistema estorsivo mafioso genera le condizioni affinché l’economia sia condannata alla permanenza nella trappola della povertà, cioè in una condizione di persistente stagnazione economica caratterizzata da dimensioni di impresa ridotte, bassa produttività e scarsi incentivi all’innovazione. Ed è proprio alla luce di questi risultati che il contrasto alle mafie appare oltremodo rilevante, per far sì che i territori in cui queste organizzazioni sono pervasive possano intraprendere un sentiero di sviluppo virtuoso.

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