L’oggetto di design ha finito di soggiogarci! - QdS

L’oggetto di design ha finito di soggiogarci!

L’oggetto di design ha finito di soggiogarci!

venerdì 08 Luglio 2022

Oggi ho inteso raccogliere le riflessioni di Francesco Finocchiaro, architetto, design e docente di Storia dell’Arte

I Design Lab permanenti, strumenti di interscambio, di relazione, di confronto, di coordinamento, per giungere all’universale e comune fine della creazione di bellezza. E poi il gioco… Quale dispositivo mediante cui tessere relazioni interpersonali, e che possiede il singolare privilegio di poter essere mediatore tra la propria sfera emozionale e il mondo esterno . In questa rubrica, mi sono impegnato a voler mettere in luce le traiettorie d’efficacia inerenti il recupero, la ri-funzionalizzazione e la riqualificazione ambientale, e sociale, di brani del tessuto urbano o di interi contesti ambientali, particolarmente esposti al degrado. A ragione di ciò, ho operato (e continuerò a farlo per voi, miei cari lettori) il coinvolgimento di alcuni protagonisti di tali pratiche, di efficaci processi di determinazione di traiettorie di assolvimento di problematiche complesse, attraverso lo strumento del progetto.

Enzo Mari la sedia Cucula
Esschert Design TP158 – Ombrello trasparente
Francesco Finocchiaro
il mobile contenitore
Immagine dello studio di Francesco Finocchiaro
Mobile contenitore
Pulse. Orto Urbano
Tempio di Zeus a Olimpia
Uno schizzo di Francesco Finocchiaro

Oggi ho inteso raccogliere le riflessioni di Francesco Finocchiaro, architetto, design e docente di Storia dell’Arte. Dottore di ricerca in Progetto Architettonico e Analisi Urbana. Già docente a contratto presso la Facoltà di Architettura di Catania con sede a Siracusa. Presidente della sede Archeoclub d’Italia, Hybla Major di Paternò e Consigliere Nazionale, già responsabile nazionale del Dipartimento Architettura e Paesaggio dell’Archeoclub d’Italia.

Bene Francesco, quali sono, secondo te, le traiettorie di induzione alla partecipazione attiva della utenza, che noi designer possiamo innestare attraverso l’esercizio, gigantesco ed illimitato, inesauribile, del potenziale connesso alla frazione ludica, giorno per giorno, istante per istante? È un potenziale energetico incommensurabile ed estremamente efficace, se ci pensi, basterebbe metterlo in esercizio con le opportune procedure.

«L’oggetto di design – miracolo della produzione industriale – ha finito di soggiogarci. Eravamo incantati da una tecnologia misteriosa, incomprensibile e impenetrabile. Abbiamo sempre più l’esigenza (homo faber) di dare un contributo, di completare il processo produttivo, di metterci qualcosa di nostro, persino di smontare. L’oggetto diventa soggetto, grazie al nostro contributo personale e originale. Il paradigma IKEA – spesso esorcizzato – ha introdotto l’aspetto ludico nel design. Questo impone una diversa concezione del progetto di design, che deve offrire anche la possibilità della metamorfosi e del metabolismo; la possibilità di estendere o contrarre: forme, simboli e funzioni. Un “manufatto” aperto e mai concluso. Questo rimette al centro il vero protagonista del progetto di design, il fruitore finale, e tiene aperto il tema della trasmissione alle future generazioni, di un oggetto che cambia nel tempo. Una mostra su come abbiamo modificato gli stessi oggetti nel tempo? Siamo figli di Marcel Duchamp?»

Direi proprio di si. Due miei libri, pronti per le stampe, citano il lavoro sapiente, e sbalorditivamente attuale, di Marcel Duchamp. Uno, dal titolo “Crack-à- design!. Pratiche predatorie e processi emulativi nel design”, e l’altro dal titolo “IncuboUS design. La pratica oscura ed irriverente del design” che, a ragione del loro naming, non credo abbiano bisogno di ulteriori argomentazioni in relazione alle connessioni, dirette ed inevitabili, con l’enorme, gigantesca, rivoluzione di pensiero e d’’azione operata da Duchamp, e che si mostra, come dicevo, profondamente in sintonia con la frazione d’esercizio propria di ogni autore del nostro tempo, sia esso artista, utente comune ed indifferenziato o designer.

Nei miei scritti parlo spesso di Design Therapy, quale nuovo ‘bisogno’, in un’era in cui tale termine è stato destituito dal termine ‘desiderio’, ovvero della realizzazione di serie di azioni concrete nella nostra vita reale, per la realizzazione di un Paesaggio Risonante. Come pensi possa essere accolta, dagli enti competenti, tale procedura di realizzazione di uno scenario attivo nei nostri contesti territoriali?

«La questione del paesaggio è centrale. Come della soggettività del processo produttivo e quindi tutto ci porta al tema del desiderio. Abbiamo la necessità di cambiare il mondo, di modellarlo. Quasi una terapia collettiva. Il passaggio di scala dall’oggetto atopico, distaccato e iconico a quello che diventa parte del paesaggio stesso, anzi determina un nuovo paesaggio. Lo spazio urbano è il teatro di questa tensione e i micro interventi – spesso a carattere effimero – sono il campo di sperimentazione. Ma non stiamo parlando di sculture, ma di oggetti autoprodotti che incidono nella quotidianità. Un esempio è stato PULSE, un progetto sviluppato da officina 21 e alcune scuole superiori di Paternò-Hybla per sperimentare il tema dell’orto urbano come dispositivo per modificare il paesaggio della città costruita. Un esperimento coinvolgente che ha emozionato e sviluppato nuovi desideri. La possibilità di realizzare un orto multipiano, dentro un piccolo cortile, ma nello stesso tempo tanto altro per la città. Un frattale con innumerevoli applicazioni. Praticabile da chiunque e ovunque con un costo sostenibile. Il desiderio della bellezza per tutti».

Quali limiti possiede uno strumento di pianificazione e governo dei nostri contesti ambientali, quale è quello del PUG (ex PRG) che, per definizione ha una durata illimitata, in un’era in cui i profili d’esercizio sempre più dichiarati, delle volte con grande spudoratezza e poca adesione ai feroci parametri propri della realtà concreta, sono quelli propri della Smart City?

«Anche l’idea della pianificazione urbana si sta trasformando. A partire dall’individuazione dei suoi attori protagonisti. Non più solo tecnici ma sociologi, economisti, antropologi, artisti, filosofi. Dall’idea di ricostruire le città del dopo guerra e di gestire le tensioni centrifughe, fino al concetto di aggiustare e riparare il patrimonio esistente. Dall’idea di monumento a quella di paesaggio passando per la categoria del centro storico. Un processo evolutivo che deve fare i conti con l’idea di interconnessione, costellazione ed equilibrio. Una tensione che vede le città pulsare, diventare fluide e porose, metaboliche e metamorfiche, tutto amplificato dalle reti digitali, dalle velocità della fibra ottica e dall’istantaneità. Per questo oggi serve il quadro di sistema, le invarianti del paesaggio: natura, cultura, mobilità, risorse, patrimonio, storia, ecc. che necessitano di innesti, di ibridazioni, di sistemi “parassiti”, complanari e complementari per accelerare o decelerare, per trovare nuovi equilibri di micro e di larga scala, introducendo eventi speciali (land art, performance, labfarm, teatro, autocostruzione, ecc.). Siamo villaggio e siamo metropoli. Siamo pianeta e siamo continente. Le smart city sono uno strumento che deve servire e non che deve servirsi delle comunità. La tecnologia al servizio dell’uomo e non viceversa (Papa Francesco, Laudato Sii)».

Come si conciliano questi due profili d’intervento, in un contesto urbano che non può fare più a meno di dover accogliere nella determinazione dei suoi parametri d’ingaggio e d’esercizio termini quali “temporaneità”, “provvisorietà”, “mutabilità”, “impermanenza”?

«Abbiamo costruito le città di pietra, lo abbiamo fatto per renderle eterne, oggi siamo consapevoli della mutevolezza e dell’obsolescenza di ogni cosa. La natura cambia, le città cambiano, le campagne cambiano. Il clima, le catastrofi, le epidemie, ogni cosa cambia e trasforma. Oggi siamo consapevoli della mutata velocità di cambiamento e quindi dobbiamo dare risposte più veloci. Adattarsi alle mutate condizioni. Questo significa pensare al progetto di città, di architettura o di design con l’attenzione alla dimensione tempo. Nulla è per sempre. La capacità di prevedere due-tre modificazioni permette di post datare il “fuori produzione” delle cose. Perché il consumo irreversibile non ha dato risposte compatibili con la sopravvivenza del nostro pianeta. Alvaro Siza diceva che la tipologia del “monastero” (derivante dalla domus romana) è quella che meglio nei secoli è riuscita ad adattare la sua forma a mille funzioni, senza perdere la sua natura – diventando museo, scuola, ospedali uffici, residenze, ecc. Credo che sia questa la linea da seguire nella progettazione di nuove forme, la capacità di adattamento, l’adattabilità».

Con il salto nel nuovo millennio, si è mostrata sempre più irrevocabile la questione del ridisegno, in maniera continuata, del nostro scenario di prossimità, specie alla luce della comparsa di nuove problematiche di relazione dinamica tra entità ed individui presenti in un contesto urbano, ora resi particolarmente pressanti in ragione della presenza e dell’alternarsi di crisi economico-finanziarie, ambientali, sanitarie.

«Abbiamo realizzato senza sosta, in maniera convulsiva e spesso mai completando le opere, abbiamo prodotto interstizi, margini, frange, conflitti, contrapposizioni. Non abbiamo risolto il tema del rapporto tra città e campagna e snobbato il progetto di “limite”. Eravamo impegnati a investire i capitali e le risorse disponibili. Poi il digitale ci ha illusi che potevamo fare le stesse cose ma con più tempo libero per noi, ma non è stato così. Abbiamo rincorso le tensioni e le richieste di ricchezza simbolica della collettività, tutti volevamo essere qualcuno e tutti volevamo essere riconoscibili. Oggi dobbiamo riprendere l’esercizio del “disegno” a partire dalle sue liturgie più antiche. Non è un passo indietro ma la consapevolezza che se un bambino deve crescere sano ha bisogno – prima di camminare di “gattonare”; ecco il disegno è un prerequisito per fare “città”. Un disegno non solo tecnico grafico ma multidisciplinare che individui un territorio comune tra gli attori passivi e attivi di una città. Ogni parte dell’ambiente che ci circonda merita e necessità di un “disegno” puntuale e sistemico, di prossimità e di ambito, che guardi non solo alla tecnocrazia ma anche alla teologia, sociologia, antropologia, cosmologia, tecnologia, ecc.; che guardi oltre e in tante possibili direzioni, cioè che si ritorni a guardare come gli antichi fondavano le città. Vale per ogni scala del progetto».

Già il mio amico Francesco Morace, sociologo e fondatore del Future Concept Lab descrive la penisola italiana come un immenso, risonante, emittente Laboratorio creativo dal potenziale gigantesco. Pensi che la soluzione possa passare attraverso la costituzione di una costellazione di Design Lab Permanenti, parte di una più grande sovrastruttura, capace di poter accogliere, in tempo reale, istanze e professionalità altamente specialistiche al suo interno?

«Esattamente quello che dicevo prima. Certamente – costruita l’armatura delle invarianti – serve un programma complesso, condiviso e articolato di metabolismi urbani che Maurizio Carta già da tempo ha teorizzato e praticato. Alcuni esempi in Sicilia come Farm Cultural Park, di Bartoli e Saieva, sono emblematici e i recenti bandi della Direzione Generale – Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, in particolare il programma Creative Living Lab sono la naturale applicazione. I laboratori urbani sono un dispositivo efficace e penetrante ma serve sempre un quadro generale di riferimento e un quadro normativo più coerente per disinnescare esperienze “folkloristiche” che cancellano invece di rigenerare e riavviare processi virtuosi di cittadinanza. L’architettura è uno strumento potente per raggiungere obiettivi di benessere e felicità collettiva».

Dal cucchiaio alla città.

A mio avviso, questa frase potrebbe essere il necrologio di tutta la stagione dell’utopia modernista, spazzata via dalla pochezza dei suoi contenuti umani. In ogni caso, oggi potrebbe essere mutuata in dal cucchiaio alla citta’ e dalla città al cucchiaio!. Chiudendo il cerchio, una volta per tutte, senza indugi, con la ferocia, benefica ed augurale, persino formativa, del buon padre di famiglia. Tu sei dottore di ricerca nelle discipline di Architettura e analisi urbana già docente presso l’università degli studi di Catania, ad oggi docente di storia dell’arte nel Liceo De Sanctis di Paternò-Hybla; impegnato in diversi progetti laboratoriali con i ragazzi di età scolare; sei condannato a vivere a contatto con quelle che saranno le generazioni dei futuri designer e futuri cittadini; questa nuova generazione di designer sarà chiamata all’assolvimento di un compito tanto entusiasmante quanto gravoso, quello della realizzazione di un nuovo scenario esistenziale. Quale potenziale di accoglimento di questa sfida, tutta imperniata attorno alle questioni di progetto, intravvedi in questa generazione?

«Condannato è una parola grossa, direi impegnato per scelta e per credo. C’è una responsabilità nel lavoro che svolgo nei confronti delle future generazioni. Scegliere di “educare” come architetto è un impegno etico e morale nei confronti della comunità. L’arte, l’architettura, il design sono le discipline che ogni cittadino deve “riconoscere” perché sono l’espressione più vera del suo eterno tentativo di capire il senso del “divino”. Siamo alla continua ricerca del senso della bellezza e solo l’arte ci rende felici dentro. Esiste una teologia universale che dobbiamo raggiugere e indipendentemente dai nostri credi religiosi, solo la consapevolezza dell’arte ci permette di riconnetterci al cosmo. Molti studenti – invasi da mille sollecitazioni caotiche – rischiano di perdere il senso del “logos”. Il caos è un frammento indecifrabile del logos. Il logos è la simultanea compresenza di infinite orchestre collocate in ogni parte dell’universo, che producono un’unica armonia musicale. L’arte è lo strumento per capire qualcosa di tutto questo. Quindi non esiste dal cucchiaino alla città o vice versa ma la contemporaneità delle infinite possibilità, tutte da esplorare e le nuove generazioni hanno gli strumenti per farlo ma forse sono gli educatori quelli messi male. Gli educatori che hanno vissuto la transizione tra l’analogico e il digitale e che si sono persi. Alessandro Baricco nel suo saggio, the Game, ci spiega cosa sta succedendo davvero».

Quali sono le loro traiettorie d’ingaggio, non percepite dai designer che li hanno preceduti?

«Forse l’illusione della immutabilità delle cose, la ricerca della perfezione senza tempo, la disumanizzazione di ogni prodotto, come se fosse – in quanto oggetto perfetto -lo strumento utile per la democrazia. La necessità di uniformare, livellare come conseguenza incontrollata della cultura industriale. Lo standard estremo. Persino una forma di ateismo che ha privato di spiritualità ogni cosa. Il culto di una modernità che azzera la storia. Il design ha vissuto una fase complessa e contraddittoria, ma necessaria, quasi una catarsi. Le crisi ecologiche, spirituali, politiche, energetiche, sociali, finanziarie, hanno dato uno spintone alle tante certezze, a tutte le verità provvisorie che avevamo monumentalizzato. Le nuove generazioni sentono l’esigenza di riprendere in mano un discorso interrotto. La questione da risolvere è il rapporto tra prodotto industriale e artigianale, tra prodotto artistico e intellettuale. Serve chiarire il senso della parola “sostenibile”. Declinarla in maniera onesta, contestualizzarla e perseguirla. Non si tratta di “regressione” ma di curvatura possibile. Abbiamo inseguito un sogno effimero e abbiamo scoperto che serve riappropriarci della capacità di sentire i nostri “sei” sensi».

La Natura si riappropria del suo potenziale creativo, esibendo una ricchezza di contenuti, di elementi generativi estremamente seducenti e, di una forza devastante, ed io non nutro ormai alcun dubbio, sull’inefficacia di un mondo troppo progettato, troppo disegnato, un mondo ostile ad ogni possibilità di riconoscimento del vivere umano. Quale è il tuo pensiero in merito a tale riflessione?

«Il pensiero corre verso due concetti. Cosa è la natura e come ci rapportiamo con essa il rapporto tra logos e caos, tra emozione e ragione. In questo senso appare chiaro che dobbiamo riferirci alla lezione classica dell’arte greca per dirimere questa questione. La prima sollecitazione deriva dalla pratica della “mimesis”, dell’imitare la natura. Una forma di imitazione complessa che ci porta dall’albero alla colonna dorica. Costas Varotsos, nella sua opera esposta al Parco Archeologico di Segesta, “la Spirale”, ci mostra come la mimesi è un gesto naturale e attuale. Imitare la natura non copiarla, assumere nel progetto la sostanza della natura che è portatrice di equilibrio. Ma nello stesso tempo la mente corre verso il tempio o meglio la scultura templare, quella collocata all’interno del timpano del frontone. L’artista non rinuncia alle proporzioni emozionali delle figure, compresse dalla rigidezza dello spazio, al contrario non lo nega e adatta le forme plastiche, modellandole secondo giaciture articolate. In partica la rigidezza (ragione) si armonizza con la flessuosità (emozione) trovando nel frontone una sintesi perfetta e originale. George Braque diceva: «amo la ragione perché corregge l’emozione e amo l’emozione perché corregge la ragione». Mi sembra la giusta sintesi. Progettare secondo questi principi significa pensare con la natura; è renderla riconoscibile senza ostilità e forzature. Non si tratta di progettare tutto e sempre ma di progettare bene».

“In qualunque caso si può simulare, tranne quando si tratta dei luoghi. Un uomo, in ogni condizione, deve potersi mettere in un angolo con la certezza che è il suo, almeno per un po’, o che nessuno lo manderà via di lì. Tutto il resto viene dopo”. Questa frase, tratta da “Un uomo temporaneo”, di Simone Perrotti (Frassinelli, 2015, NdA), ci introduce al quesito inerente all’attualità del concetto di Genius Loci ed al riconoscimento, da parte degli individui sociali, in una matrice identitaria legata al contesto ove si snoda la nostra esistenza. Cosa accade nell’era digitale, ha ancora senso parlare di taluni concetti, per noi dapprima considerati imprescindibili, nell’esercizio della questione di progetto?

«Noi siamo i libri che leggiamo, le persone che incontriamo e i luoghi che abitiamo. Ma siamo anche viaggiatori ed esploratori, curiosiamo oltre gli orizzonti conosciuti, per poi tornare. Siamo come un Ulisse errante e la poesia – “Itaca” – di Kostantino Kavafis è la perfetta sintesi. Quindi ci identifichiamo nel nostro paesaggio di prossimità, anche fosse l’ultimo che abbiamo abitato. L’era digitale – anche attraverso il “metaverso” può amplificare quest’attitudine umana, quella di “abitare” attraverso l’atto fondativo, quello di realizzare uno spazio accogliente, funzionale, sicuro e interconnesso. Le necessità primordiali rimangono le stesse di sempre e l’abitare ha bisogno di memoria, di orientamento, di giacitura, di sguardi, di relazioni, di risorse, di significati, di gerarchie, di estensioni. Forse andrebbe riformulato o ricurvato il signifcato di Genius Loci e lo spazio digitale può essere un modo per aumentarlo ma non per sostituirlo».

Conosco il tuo designer preferito, sono io. Ahahahahah… Scherzi a parte, hai un designer che ami profondamente? Un Autore che ti appassioni in maniera irriducibile al punto da indurre i giovani allievi ad analizzarne i criteri d’intervento, per la costituzione di un loro personalissimo approccio di metodo nell’ambito di diverse discipline di progetto, differenti ambiti applicativi.

«Sono tanti i Maestri che hanno puntellato la mia formazione e l’elenco è lungo ma quando mi si fa questa domanda la mia mente trova per primi i nomi di Enzo Mari, Achille Castiglioni e Alvar Aalto. Sono personaggi diversi ma in qualche modo hanno condizionato tantissimo la mia produzione. Ma come non pensare a Pasquale Culotta, Vincenzo Cabianca e Bruno Gabrielli? Vedi se continuo l’elenco diventa lunghissimo, la verità è che sono stato fortunato e ai miei studenti parlo molto di questi grandi maestri. Ma la cosa più bella è che sono sempre alla ricerca di nuovi maestri, non bisogna fermarsi ma cercare, confrontarsi, incontrarsi, ascoltarsi. Molti maestri sono invisibili, silenziosi e umili, bisogna capirli, perché spesso non li trovi nelle pagine di un libro. Ma posso non citare Alberto Campo, Jesus Aparicio e Joaquin Ibañez? Mi dispiace non c’è solo un nome ma tanti, anche il tuo che sei un vulcano in continua eruzione. AhAhAhAh. Però fammi passare l’ultima, mio padre, mio nonno e mio zio. Giovanni, Francesco e Peppino Finocchiaro. Artisti, artigiani e pensatori. Devo molto a loro. (tra i maestri)».

Cosa puoi dirmi del tuo approccio di metodo?

«Non è possibile sintetizzarlo ma diciamo che al centro di tutto c’è la cura del rapporto tra l’uomo, l’universo e dio, come il titolo di un bel libro di Jean-Pierre Vernant, l’antropologo francese che ha decodificato i classici della mitologia greca. Altro elemento importante è il confronto durante la fase progettuale e l’intimità di alcune fasi come le prime, dove si rimane soli con la sacralità dei luoghi. Poi confronto, dubbi, disegno, disegno per capire, per scoprire. Studio, letture, visioni, soprattutto visioni. Una meta finale, il benessere e la felicità del fruitore ma anche la sua co-partecipazione al processo produttivo. Ma ci sarebbe tanto di dire ancora, ma così entriamo in un campo misterioso e segreto che non è visibile a tutti. Una citazione spiegherebbe meglio tutto, quella di Paul Valéry nel suo Eupalino o l’architetto dove spiega come e perché l’architetto progetta, spesso per stupire la persona amata. Noi lavoriamo per emozionare le persone che amiamo, sempre, anche quando non lo dichiariamo apertamente».

Il tuo oggetto preferito?

«L’ombrello, il cavatappi, la molletta, gli occhiali, le scatole di fiammiferi. Tutti gli oggetti, che pur essendo piccoli e semplici, ci rendono la vita migliore, comoda. Mi affascinano gli oggetti semplici che contengono la complessità».

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