Il diario che il tenente dell’aeronautica tenne in quei giorni dovrebbe far parte del manuale di ogni imprenditore
Se si pensa ad un prototipo capace di condensare le qualità morali del bushido (il codice di comportamento del guerriero nipponico) e dell’imprenditore il pensiero vola ad Arturo Ferrarin, il pilota vicentino di Thiene che nel 1920 con un biplano di seconda mano da 250 cavalli, l’Ansaldo S.V.A. 9, riuscì nell’impresa di volare da Roma a Tokyo: un raid di 18mila chilometri in 29 tappe, con partenza il 14 febbraio del 1920 e arrivo trionfante il 31 maggio dopo 112 ore di volo. Il principe Hirohito proclamò quaranta giorni di festeggiamenti in onore di Ferrarin, conferendogli la più alta onorificenza giapponese e una preziosa spada da samurai).
Il diario che il tenente dell’aeronautica tenne in quei giorni dovrebbe far parte del manuale di ogni imprenditore. Armato solo di una cloche, di un altimetro e di una bussola, in compagnia del suo fido motorista Gino Cappannini, ribattezzato Picinin, (“non pesa nulla, non occupa quasi spazio, non si lamenta mai. Conosceva il motore alla perfezione, ne ascoltava il palpito del cuore appoggiando l’orecchio ai cilindri, lo regolava accarezzandolo con amore materno: credo che tra loro parlassero e si comprendessero”) riuscì dove fallirono tutti i suoi 26 compagni di avventura, due dei quali trovarono la morte, componenti di una squadriglia formata da sette biplani Ansaldo S.V.A 9 e quattro giganteschi Caproni di diversi modelli. A Tokyo arriveranno solo le due coppie: Ferrarin-Cappannini e Guido Masiero-Roberto Maretto (entrambi padovani), che a causa di ripetute avarie al motore compirono una tratta in treno e l’altra in nave.
Ferrarin era diventato pilota di aeroplani disobbedendo al padre che lo voleva a tutti i costi alla guida dell’azienda laniera di famiglia. La sua idea dell’Oriente l’ha formata leggendo qualche libro di Guido Gozzano e fantasticando su un atlante geografico.
È un volo alla cieca con aeroplani primitivi in un mondo sconosciuto. Quasi un viaggio nella sua fanciullezza (quando decolla alla volta di Tokyo ha 26 anni) in compagnia di un motore, un meccanico di 20 anni, un amore sconfinato per la scoperta del mondo ed un grande coraggio. Un’altra compagna c’è e quasi con enfasi Ferrarin ne mette al corrente il suo diario mentre intorno a sé fiuta, come un marinaio, poco prima di salpare “un’atmosfera quasi molesta”. Questa terza compagna risponde al nome di fortuna. “So perfettamente che è una pazzia e ho una probabilità minima di vincere. Ma ho un’incognita in mio favore: la mia fortuna”. Il samurai volante si affida dunque alla più imperscrutabile delle creature. Ma volerà sulle ali di un auspicio che il solito D’Annunzio (in quei mesi impegnato nell’avventura fiumana) aveva coniato da qualche anno: “memento audere semper (Mas)”.
E a forza di osare, in fondo alla penisola arabica schiverà l’esecuzione sommaria per mano di una tribù di selvaggi alla testa dei quali c’è una gigantesca virago con occhi feroci che cavalca nuda un destriero bianco.