Mario Venuti si racconta al QdS: “Preferisco un mondo fatto di contrasti, tra carne e cielo” - QdS

Mario Venuti si racconta al QdS: “Preferisco un mondo fatto di contrasti, tra carne e cielo”

redazione

Mario Venuti si racconta al QdS: “Preferisco un mondo fatto di contrasti, tra carne e cielo”

Gino Morabito  |
giovedì 09 Maggio 2024

Il cantautore siciliano pubblica il suo undicesimo album: “Sono un perfezionista e ho ancora nuovi territori da esplorare”

CATANIA – Se non fosse stato per la musica, probabilmente avrebbe fatto l’architetto di interni. L’anno del suo diploma i Denovo erano già avviati e suonavano gli Ottanta. In gruppo poi da solista, il percorso umano e artistico di un raffinato interprete del nostro tempo. Il viaggio, ‘Tra la carne e il cielo’, di chi continua a raccontarci quell’ardente passione per la vita.

Mario Venuti pubblica l’undicesimo album in studio di inediti. Il disco, prodotto da Microclima, affronta tematiche di stringente attualità, diverse molto forti. A ulteriore conferma di come il cantautore catanese sia sempre capace di superare gli schemi e le convenzioni. Si è stancato del politically correct?
“Sono temi che arrivano con la maturità, anche se non mi sono mai tirato indietro quando sentivo la necessità di parlare di argomenti che avessero un peso specifico maggiore. Addirittura un disco come ‘Il tramonto dell’Occidente’ era tutto rivolto a commentare musicalmente la decadenza della nostra civiltà. Certo, scrivo anche brani d’amore, più leggeri. Tuttavia il disimpegno fine a sé stesso mi imbarazza un po’ e non si può pretendere da me che componga delle ‘canzoncine scacciapensieri’. È pur sempre pop. Ma non mi appartiene”.

Dal grande affresco realizzato con quelle sfumature che richiamano le atmosfere dei tropici al degrado delle periferie. La sua è un’umanità vitale e dolente.
“Una certa attrazione per le periferie l’ho sempre avuta. Trovo che, al di là dei problemi specifici, ci sia un’energia che mi cattura: le vicissitudini di un’umanità che soffre, fa fatica, ama. Non sono particolarmente portato a cantare i mondi dei borghesi, né tanto meno dei ricchi. Preferisco di gran lunga un mondo fatto di contrasti, tra la carne e il cielo. Popolato di certe realtà come Napoli o come Bahia, che sono posti difficili, talvolta pericolosi”.

Immagini che raccontano un mondo che non si ferma mai, fatto di situazioni e relazioni tossiche tra violenza, stress, superlavoro, povertà e inquinamento.
“Mere ragioni economiche, a cui è seguito lo sfaldamento di certi presìdi istituzionali aggiunto ad un lassismo morale generale, hanno portato molte nostre città, soprattutto al Sud, ad un livello di incuria e abbandono mai visto. La situazione ha raggiunto vette tragiche, ma il legame affettivo che abbiamo coi nostri luoghi ci fa comunque rimanere”.

La metafora è calzante: a volte l’incuria piace come un piatto con la paprika.
“Sono tornato da poco dalla Colombia e a Mersin si fanno i tour nei luoghi del narcotraffico. Come in Sicilia quelli della mafia. Spesso i turisti amano pescare un po’ nel torbido, attratti da qualcosa di più piccante”.

Nel bene e nel male, restiamo figli di un piccolo tempo, a cui l’eterno fa troppa paura. Cos’è che più la spaventa del nostro inferno moderno?
“Soprattutto quelli che Bob Dylan chiamava i ‘masters of war’, questi cinici governanti che, per qualche chilometro in più di terra, non si fanno scrupoli a seminare morte e dolore”.

In balia delle insicurezze, dell’ansia da prestazione che ci attanaglia ogni giorno. Anche lei ne è vittima?
“Aspiro ad una calma zen che, nonostante la mia fede buddista, non sempre riesco a trovare. La capacità di mantenere il sangue freddo di fronte a eventi che ti aggrediscono è sicuramente una conquista. Parimenti quella di alleggerire il mio karma fumantino che si accende all’improvviso”.

Superata la boa dei sessanta, crede sia necessario un ulteriore scatto di volontà per continuare la sua evoluzione?
“La volontà è necessaria per proseguire nello sforzo di fare questo lavoro che richiede continua dedizione. Col tempo, si diventa più esigenti: la qualità di ciò che si vuole produrre necessita di molta attenzione. È accaduto anche con questo disco che è stato molto faticoso. L’ho cantato due volte, l’ho masterizzato due volte, l’ho mixato e rimixato facendo mille ritocchi. Purtroppo soffro del demone del perfezionismo che, a volte, non mi fa dormire la notte”.

È lo scotto da pagare per un’anima inquieta.
“Potrebbe sembrare un’espressione negativa, invece artisticamente è positiva perché ti porta a ricercare altro. Sono sempre stato inquieto, nella mia vita e nella mia attività, senza mai snaturarmi però. Coerente con un ideale estetico che comunque è rimasto immutato nel corso di questi quarant’anni”.

Ha mosso i primi passi in un’epoca in cui per emergere era necessario formarsi nelle cantine e nei garage. Nell’ottica della carriera, considera la sua provenienza come un vantaggio o un limite?
“Sono orgoglioso della mia provenienza, di quello che ho fatto e del periodo in cui mi sono formato, con una qualità dell’attenzione verso la musica che purtroppo non esiste più. Oggi la concentrazione è diventata una merce rara, già dopo dieci secondi skippi e vai avanti. C’è una superficialità nella fruizione e un eccesso di proposta, per cui avere tutto è quasi come non avere niente”.

Tra sacro e profano, corpo e anima. Continuerà ancora a raccontarci la fortuna di chi nasce danzando sul naso del mondo e inventa la bellezza?
“Ho ancora tanto da dire, nuovi territori da esplorare. Mi scontro magari con una realtà difficile, diversa da come la conoscevo, e cerco di adattarmi. Di certo, però, l’ispirazione non mi manca”.

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