ROMA – Come è cambiato il mercato del lavoro dagli anni Novanta del secolo scorso? Se n’è parlato in uno dei podcast Istat del ciclo “Dati alla mano”, dal titolo “C’è lavoro e lavoro”.
E a spiegare le dinamiche del nuovo mondo del lavoro ci hanno pensato Cristiana Conti, che in Istat lavora nella Comunicazione, informazione e servizi a cittadini e utenti insieme a Nicoletta Pannuzzi, che in Istat dirige il sistema integrato lavoro, istruzione e formazione.
All’interno del mercato del lavoro si distingue, ormai, tra “posizioni standard” e “non standard”. Le prime sono quelle che prevedono continuità, contribuzione pensionistica, assicurativa, indennità in caso di perdita di lavoro e oggi sono meno del 60%.
I lavoratori non standard sono, invece, quelli a bassa intensità. Ossia con minori tutele. Sono quelli con contratto a termine (che non sempre garantisce una retribuzione per tutti i mesi dell’anno) o part-time, che riguarda più del 18% degli occupati (non come scelta di vita ma per mancanza di alternative). All’inizio degli anni Novanta i contratti a termine erano circa 1 mln e mezzo. Stando ai dati del 2022 se ne contano più di 3 mln! E il 46,7% ha un contratto che non supera i sei mesi.
La buona notizia in tutto questo è che l’istruzione protegge da situazioni di vulnerabilità e ciò vale soprattutto per le donne. Inoltre, più di tre quarti dei laureati fa un lavoro qualificato. Resta, però, il fatto che nel nostro mercato del lavoro troviamo lavoratori non standard tra ricercatori, insegnanti, professioni in ambito artistico, anche tra i giornalisti. Anche se la massima concentrazione di non standard la troviamo tra gli addetti alle pulizie, alle consegne, tra i braccianti agricoli…
Del resto la produzione industriale, sempre più automatizzata, richiede almeno un titolo di studio di secondaria di secondo grado.
E che dire degli espatri dei giovani che si formano in Italia e vanno all’estero in cerca di un lavoro più gratificante? A Francesca Licari, esperta Istat in materia, è stato chiesto di illustrare il fenomeno.
Dal 2010 è un fenomeno in aumento, dice l’esperta. Si tratta di ragazzi/e tra i 25/34 anni che hanno conseguito almeno la laurea. Quando l’esperienza è temporanea arricchisce il cv, quando è permanente si iniziano a fare i conti: calcolando il numero degli espatri e dei rientri nel nostro Paese si conta un saldo negativo di 83 mila giovani qualificati tra il 2010 e il 2021. Mete principali: Regno Unito, Germania, Francia, Svizzera, Stati Uniti. Partono soprattutto dal Nord e dalle Isole. Nello stesso decennio di riferimento si osserva anche la migrazione interna, ossia dal Meridione al Centro-Nord. Altro dato: l’Italia è indietro rispetto alla media europea per percentuale di laureati.
Anche lavoratori con un lavoro stabile, però, non sono esenti dal rischio povertà. Più della metà (65%) ha un lavoro a tempo indeterminato, se part-time il rischio sale, diminuisce se in famiglia ci sono altri lavoratori. Certo dipende anche dal settore in cui si lavora. Tra i non standard si concentrano le retribuzioni più basse, oltre ad essere il settore dove più si registra lavoro irregolare. Ne sono un esempio, braccianti e badanti.
Non dimentichiamo i lavori “gravosi” identificati dalla legge n.234 del 2021. Sono quei lavori che richiedono un impegno tale da rendere particolarmente difficoltoso e rischioso il loro svolgimento in modo continuativo. Se ne contano 325. Cosa ne sappiamo? Sono 3,6 milioni i lavoratori con mansioni gravose con almeno 50 anni e circa 600 mila di questi sono non-standard. La maggior parte stranieri.
E le donne sul mercato del lavoro? Sono sempre di più. Nel 1977 il mercato del lavoro era “maschile”; il tasso di attività degli uomini tra 25 e 64 anni era dell’87%, quello delle donne era appena del 35,7%. Passi in avanti ne sono stati compiuti, ma l’Italia insieme a Malta e Grecia restano i paesi con il più basso contributo femminile nel mondo del lavoro, sebbene il suo tasso di laureate sia del 70 per cento.