Nazioni Unite, Croce Rossa e Unione europea in soccorso di chi fugge dal Nagorno-Karabakh - QdS

Nazioni Unite, Croce Rossa e Unione europea in soccorso di chi fugge dal Nagorno-Karabakh

redazione

Nazioni Unite, Croce Rossa e Unione europea in soccorso di chi fugge dal Nagorno-Karabakh

Stefano Modena  |
venerdì 06 Ottobre 2023

Chi sta aiutando gli armeni che stanno scappando dal Nagorno-Karabakh?

GORIS – Chi sta aiutando gli armeni che stanno scappando dal Nagorno-Karabakh? Abbiamo provato a capirlo andando a Goris, una cittadina di circa 20.000 abitanti, il primo centro di una certa rilevanza dopo il confine con l’Azerbaijan. Si trova a poco più di 200 km dalla capitale dell’Armenia, Erevan, collegata da una strada a due corsie.

Sono molte le macchine dei profughi del Nagorno-Karabakh che la percorrono, si capisce dal fatto che sono stracariche, anche rispetto agli standard locali. Sul tetto portano di tutto, incluso coperte e teloni per ripararsi in caso di necessità e mancanza di meglio. In albergo un gruppetto di persone fa colazione, si capisce che non sono turisti dal Pc acceso con una tabella di Excel in vista. Alla comitiva si aggiunge una persona, ha l’aria di essere un locale. Beve qualcosa, poi se ne vanno tutti insieme, fuori li aspetta un Suv bianco con le insegne delle Nazioni Unite.

Una ragazza sulla trentina sta aspettando i colleghi. Ha l’accento francese e indossa una felpa con il logo di una Ong. Mi dice che va di fretta, non ha molta voglia di parlare, non vuole dire il suo nome né che compaia sui media il nome della sua organizzazione. L’Ong collabora con l’Onu, distribuisce buoni ai profughi da spendere nei negozi e supermercati locali per beni di prima necessità. Le persone che arrivano hanno solo ciò che sono riuscite a caricare in macchina. Scappare ha provocato un forte stress emotivo per il quale forniscono anche assistenza psicologica. La collaborazione si estende anche alle strutture ospedaliere della zona. Ma la parte più pratica dell’attività è il supporto diplomatico per ottenere documenti.

La guerra lampo di metà settembre ha messo fine alla Repubblica dell’Artsakh, uno stato non riconosciuto da nessun Paese, rimasto nel limbo dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Popolata da armeni all’interno dell’Azerbaijan la repubblica sarà dissolta con la fine dell’anno. Avere dei documenti riconosciuti è fondamentale per poter andare da qualunque parte. Chiedo dove siano diretti i profughi, mi risponde che non c’è un unico posto, un po’ dovunque in tutto il Paese.

Due terzi dei 120.000 abitanti hanno già lasciato il Nagorno-Karabakh

Il governo aveva fatto sapere di essere pronto a ospitare 40.000 famiglie e in effetti a Erevan un albergatore mi ha parlato della difficoltà di trovare una stanza in questi giorni a causa dell’esodo dal Karabakh. Secondo alcune stime, due terzi dei 120.000 abitanti hanno già lasciato il Nagorno-Karabakh, e non ci vorrà molto prima che la pulizia etnica sia completa. Dal 2020 a oggi erano già arrivate 90.000 persone. La ringrazio per le informazioni e la saluto mentre frettolosamente se ne va.

Mi avvio verso il centro della città, davanti a un albergo ci sono tre Suv con la targa svizzera, di Ginevra. Sono del Comitato Internazionale della Croce Rossa. Non trovo nessuno, ma poco più avanti vedo altri due Suv blu. Sventolano la bandiera dell’Unione Europea e hanno una targa diplomatica. Un ragazzo alto, anche lui sulla trentina, con la barba di pochi giorni scende dalla macchina e si infila in un negozio. Si chiama Tiago, è portoghese. Anche lui è molto abbottonato. Mi dà solo le informazioni ufficiali, dice che fa parte della missione dell’Unione Europea che ha il mandato di rafforzare la fiducia tra Armenia e Azerbaijan. Un obiettivo che aveva senso in gennaio, ma che è stato superato dai fatti.

Il sito del Servizio esterno dell’Unione Europea dice che è previsto l’invio di 103 civili per due anni, ma è chiaro che molte cose dovranno essere riviste. La presenza di questi osservatori non è certamente risolutiva, ma è comunque tranquillizzante. Anche lui risale in macchina e riparte con il piccolo convoglio.

Mi rimetto in viaggio, all’uscita della città appare un cartello stradale che sembra un programma di vita. A destra si va a Erevan, a sinistra a Stepanakert, il capoluogo del Nagorno-Karabakh, dove chi scappa non tornerà mai più.

Disgrazia e rassegnazione: la vita da profuga di Anhait

Dove sono finiti gli armeni scappati dal Nagorno-Karabakh? Un po’ in tutta l’Armenia. Incontro Anahit in una struttura di Dilijan, 100 km a Nord-Est della capitale Erevan. Il suo vero nome preferisce non dirmelo, ma si fa chiamare con uno dei tipici nomi femminili armen, Anhait.

Sta facendo disegnare i figli, i suoi e quelli di altri familiari per tenerli occupati dopo cena. I bambini ridono, nel complesso cercano mantenere un clima di serenità, nonostante la situazione. Non parla volentieri, quasi chiusa nel suo dolore, in più di qualche occasione tradisce una forte emozione, al limite delle lacrime. La vita non è mai stata facile, già dopo la guerra del 2020 la famiglia si era dovuta spostare dal Paese di origine al capoluogo della Repubblica dell’Artsakh, Stepanakert.

Il 19 settembre l’Azerbaijan ha sferrato un’operazione militare che non si è conclusa con un bagno di sangue solo perché, vista la sproporzione di forze, gli armeni si sono arresi subito. A quel punto la famiglia ha messo in macchina ciò che ha potuto, ha lasciato Stepanakert e si è diretta verso Goris e poi da lì a Dilijan.

In questa struttura sono ospitati dal governo Armeno, ma naturalmente spera in una vita migliore. Ha dei parenti a Erevan e a breve andrà nella capitale per cercare una sistemazione migliore. La serata è umida, di giorno ha piovuto e i panni stesi faticano ad asciugarsi. Dalle parole si sente il legame con la sua terra, l’Artsakh, dice che è bellissima, e il dolore per avere dovuto abbandonare tutto.

Non c’è animosità nei confronti degli azeri, piuttosto rassegnazione per la disgrazia che è capitata. Spera di poter ritornare, ma sa bene che sarà molto difficile e non avverrà in tempi brevi. Intanto la comunità si è dispersa, non c’è nessuno che abbia già organizzato la diaspora in modo da non lasciare finire secoli di storia. Adesso l’unica cosa che conta è poter ricominciare a vivere una vita normale, o quasi.

S.M.

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