Rifiutare i vaccini è una prerogativa garantita dall’articolo 32 della nostra Costituzione. Poco plausibile l’ipotesi di un licenziamento per un comportamento “oppositivo”
ROMA – La pandemia ha notevolmente stravolto la organizzazione del lavoro di gran parte delle aziende, basti, soltanto considerare il divieto di licenziamenti imposto con il decreto n. 18 del 2020 (c.d. decreto “ Cura Italia”, convertito con legge n.27 del 2020) ed a tutt’oggi vigente in forza di decreti di proroga e modifica, nonché i complessi adempimenti amministrativi imposti per beneficiare dell’apposita cassa integrazione guadagni, che hanno richiesto non poco impegno a commercialisti e consulenti del lavoro chiamati ad interpretare la normativa delle circolari di attuazione e ad eseguire adempimenti tutt’altro che semplici; mentre il Covid continua a minacciare la sopravvivenza di tutte le imprese, ed in particolare di quelle appartenenti ai molteplici settori individuati in base ai codici Ateco, alle quali sono state imposte, con specifiche e mutevoli disposizioni, la sospensione dell’attività o limitazioni nelle modalità di svolgimento e di tutte le restanti perché operanti nell’area dell’ indotto delle prime.
Secondo una recente rilevazione dell’Ufficio Studi di Confcommercio sarebbero 270 mila le aziende del settore che non riapriranno dopo la pandemia. In questo contesto così poco incoraggiante un vero e proprio vaso di Pandora, traboccante di problemi organizzativi, è stato posto tra le mani degli agli imprenditori. Tra i più angoscianti rebus vi è quello di come continuare ad osservare l’obbligo nascente dall’art. 2087 codice civile di mantenere sicuri e salubri i luoghi di lavoro in relazione al Covid.
Infatti, chi gestisce una impresa non potrà non valutare di quali risorse dispone e se in futuro disporrà, o meno, di una legittima potestà di imporre ai propri dipendenti di sottoporsi alla inoculazione del vaccino. A questo quesito è facile rispondere che per moltissimi settori non soccorrerà il decreto, di cui a giorni si attende la pubblicazione ed al quale, attualmente, stanno lavorando i dicasteri della Salute, Lavoro e Giustizia. Il provvedimento governativo che a breve vedrà la luce, così come preannunciato in conferenza stampa dal premier Mario Draghi imporrà, forte dell’indirizzo giurisprudenziale manifestato dalla Corte Costituzionale, con ripetute sentenze, tra cui anche quella recente del 2018, imporrà l’obbligo vaccinale soltanto agli operatori sanitari, che nell’esercizio dei loro compiti lavorativi vengono a contatto con i pazienti.
Non è dato sapere se un analogo obbligo sarà previsto per qualche altra categoria di lavoratori. Pur non essendo possibile, al momento conoscere il testo del provvedimento, sembra molto poco verosimile che la norma in corso di stesura o altre che seguiranno a breve, possano fornire una regolamentazione per tutti i settori lavorativi, che comportano esposizione a rischio, diversi da quello sanitario.
In effetti questa auspicabile, ma inesistente, normativa dovrebbe affrontare l’arduo problema di disciplinare, commisurandone i limiti di due diversi e fondamentali diritti del cittadino, costituzionalmente garantiti ed in possibile rotta di collisione tra loro. Il legislatore correrebbe continuamente il rischio di sfuggire a Scilla per incappare in Cariddi. Infatti, se per un verso è innegabile il diritto del datore di lavoro di non esporsi ai rischi gravi di un possibile inadempimento, nascente dal mancato rispetto dei suoi obblighi di tenere sicuro l’ambiente di lavoro, per altro verso è del tutto legittimo il principio per cui un lavoratore possa rifiutarsi di sottoporsi a vaccinazione, in quanto mancando uno specifico obbligo giuridico, rifiutare il vaccino costituisce una prerogativa individuale garantita costituzionalmente. Infatti, l’art. 32 della Costituzione opera un contemperamento di interessi: affermando, al primo comma, il diritto positivo alla salute ed al secondo comma, il diritto a non essere sottoposto obbligatoriamente ad un trattamento sanitario, se non per disposizione di legge. Da ciò la evidente legittimità di rifiutare la inoculazione del vaccino.
Tra gli studiosi di questo settore del diritto è prevalente la corrente di pensiero che ritiene questo comportamento oppositivo possa comportare una altrettanto legittima sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per il lavoratore renitente, risultando allo stato minoritaria quella opposta opinione che ipotizza la possibilità di operare il licenziamento, anche se con le cautele del caso, ove non sia possibile destinare il lavoratore dissenziente alla vaccinazione ad altri compiti, che non espongano i colleghi o terzi a rischio di contagio.
Il 19 marzo appena trascorso, il Tribunale di Belluno, con una ordinanza che ha definito il procedimento cautelare (n. 12/2021) promosso da alcuni infermieri ed operatori socio sanitari, che operano nell’ambito delle case di riposo e che non hanno inteso vaccinarsi e che per questo erano stati posti in ferie retribuite, con unilaterale determinazione del datore di lavoro, ha rigettato il ricorso dei medesimi lavoratori, affermando che, in questo caso, le esigenze di sicurezza sanitaria rendevano legittimo porre in ferie, il personale, contrario al vaccino, sebbene l’azienda non avesse in alcun modo considerato l’interesse dei lavoratori di usufruire del riposo feriale in un diverso periodo, in violazione, solo apparente, del disposto dell’art. 2019 codice civile.
La decisione è motivata dalla prevalenza del diritto alla sicurezza rispetto al diritto di godere regolarmente delle ferie. La notizia è stata travisata ed è circolata inappropriatamente, come una prima generalizzata conferma giudiziaria del diritto di sospendere dall’attività i lavoratori che rifiutano il vaccino. Non è così, il sentiero è incerto, lungo, aspro ed è tutto in salita.
Giuseppe Sciacca
Avvocato Giuslavorista