Voci e ricordi oltre l’inferno di Capaci, “Vuoti che non si possono colmare” - QdS

Voci e ricordi oltre l’inferno di Capaci, “Vuoti che non si possono colmare”

redazione

Voci e ricordi oltre l’inferno di Capaci, “Vuoti che non si possono colmare”

Roberto Greco  |
martedì 23 Maggio 2023

Parlano mogli e fratelli degli uomini che sacrificarono la loro vita per lo Stato. Il magistrato Guarnotta: “Conobbi Falcone quando eravamo ancora studenti”

Un botto. L’attentatuni. La bomba di Capaci non sventrò solo l’autostrada Palermo-Trapani. La bomba di Capaci sventrò le case di Giovanni, Francesca, Antonio, Rocco e Vito. Entrò con prepotenza nelle loro vite, colpì nello stesso istante mogli, fidanzate, madri, padri, sorelle, fratelli e figli. Entrò con prepotenza nella vita dei loro amici e di quanti li conoscevano.

“Il mio primo incontro con Giovanni Falcone avvenne quando eravamo studenti all’università – racconta a QdS Leonardo Guarnotta che fu membro del pool che istruì il maxi processo e si occupò delle prime grandi indagini di mafia – perché siamo nati a pochi mesi l’uno dall’altro. Io e Giovanni, dopo il nostro ingresso in magistratura, ci ritrovammo come presidenti di seggio in una consultazione elettorale a Bagheria e ci alternavamo con le nostre rispettive auto per muoverci da Palermo per raggiungere il seggio. Fu un’occasione per parlare di noi, dei tempi dell’Università e dei nostri progetti futuri ma mai avremmo immaginato che, dopo anni, ci saremmo incontrati quando, nel gennaio 1980, fui trasferito su mia richiesta all’Ufficio Istruzione, allora diretto da Rocco Chinnici che ebbe due idee geniali. La prima fu quella di uscire dal Palazzo di Giustizia per far capire ai giovani cosa fosse la mafia parlando con loro, nelle scuole e nelle università. L’altra fu quella che le indagini nei confronti della mafia dovevano essere svolte non da singoli giudici, com’era successo in passato, ma lavorando assieme per far sì che tutti i magistrati avessero contezza delle diverse informazioni. Nel 1984 Caponnetto, che diresse l’ufficio dopo la sua morte, formalizzò il pool ed io ne feci parte. Da un lato ero molto soddisfatto per essere stato scelto ma dall’altro ero preoccupato perché sapevo che la mia vita e quella della mia famiglia sarebbero cambiate”.

Un’esperienza forte, quella del pool, che non terminò con la chiusura del maxi processo. Poi il trasferimento di Falcone a Roma. “Quel 23 maggio stavo giocando a calcetto con i miei amici. Al termine della partita rientrando a casa, mi fermai in un negozio di elettronica. Fu lì che mi fu detto dell’attentato. Il mio pensiero corse subito a Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino, entrambi a rischio. Corsi immediatamente all’ospedale Civico. Vidi Giovanni, era adagiato su una barella. Il suo corpo sembrava intatto, aveva solo una piccola ferita sul volto. Non ho più potuto parlare con lui, incontrarlo, vederci, lavorare assieme. È stato straziante, quel 23 maggio”.

“Fu incontro casuale, quello con Antonio – racconta a QdS Tina Martinez Montinaro, la moglie – il nostro sguardo s’incrociò e, in quel momento, lui decise che le nostre vite avrebbero dovuto svilupparsi assieme. Era un ragazzo simpatico, travolgente. Dopo poco meno di un anno eravamo sposati ed io attesa del nostro primo figlio. Quello che mi colpì furono le scelte che aveva fatto, come quella di venire a lavorare a Palermo in quegli anni ’80 in cui tutti i giorni si contavano morti per mano mafiosa, quel periodo in cui il dottor Falcone era l’uomo più a rischio d’Italia. È evidente che ero preoccupata, proprio per queste scelte, ma ero anche molto orgogliosa”.

Giovanni, il figlio, aveva ventun mesi, in quel terribile maggio del ’92 mentre Gaetano ne aveva quattro. “Era un papà fantastico. – continua Tina –. Era un giocherellone, molto orgoglioso dei suoi figli maschi. Il poco tempo libero che aveva, era per lui un’occasione per portarli in giro e stare con loro”. Ricominciare ha voluto dire voltare pagina, iniziare a scrivere un nuovo capitolo della propria storia. “Antonio continua a riempirmi la vita. Parlo di lui al presente, mai al passato. Crescere i suoi figli, parlare di lui, lottare per farlo ricordare ti riempie la vita. Quel dolore, seppur intenso, non mi ha bloccata. Io sono una persona solare, a cui piace ridere, interessata a molte cose. Sono andata avanti e ho voluto che questa città andasse avanti. Parlare nelle scuole con i ragazzi, portare in giro dell’Italia i resti di quella Croma, fare memoria. Spesso, nelle scuole di Polizia in cui vado, incontro ragazzi di Brancaccio o di Cruillas. In quei momenti capisci che qualcosa è cambiato perché questi ragazzi hanno fatto la loro scelta, hanno capito. Questa è la mia vita e Antonio è sempre al mio fianco, anche in questo momento”.

Rocco Dicillo, in quel periodo, si occupava della tutela di padre Pintacuda che, quel 23 maggio non era a Palermo e sostituì uno degli agenti che era di riposo. Nel mese di luglio, padre Pintacuda avrebbe dovuto celebrare il matrimonio di Rocco con Alba, la sua fidanzata. “Rocco era quanto di meglio si poteva desiderare come fratello – racconta a QdS Michele Dicillo – innanzitutto per il suo senso innato del dovere che possedeva. Non parlo solo di quello concernente la sua professione. Avevamo un’azienda agricola a conduzione familiare e lui, sin da piccolo, aveva dimostrato di dedicarsi alla famiglia e al lavoro, anche quando si trattò di consentirmi di studiare, lasciandomi più tempo a disposizione, sostituendomi nei lavori che era necessario compiere. Se sono riuscito a studiare e diventare medico, lo devo a Rocco. Un fratello molto protettivo, quasi come un padre”.

In quelle prime luci della notte, quel 23 maggio 1992, davanti all’abitazione dei genitori e di Michele a Triggiano, arrivarono diverse auto della Polizia. Furono accompagnati all’aeroporto di Brindisi e imbarcati su un aereo con destinazione Palermo. “In quel momento, all’improvviso, vennero meno una figura di riferimento, un sostentamento affettivo, pratico e morale. Nostra madre ha dovuto affrontare il dolore di seppellire un figlio, io quello di perdere un fratello, un amico, un consigliere. Ricordo i suoi occhi celesti, trasparenti, i suoi capelli bruni. Ricominciare è stato molto complicato. Ci sono vuoti, nella propria vita, che non si possono colmare. Rocco è uno di questi vuoti”.

Il suo grido, lanciato durante i funerali dal pulpito del Pantheon di San Domenico, diventò il grido dolore di quella tragedia collettiva vissuta dal Paese. “Io vi perdono, però dovete mettervi in ginocchio…”. Rosaria Costa Schifani era la moglie di Vito.

“Incontrai Vito all’ufficio di collocamento – racconta al QdS Rosaria – mentre stavo consegnando la domanda di assunzione per la colonia comunale della Favorita. Mi sono innamorata di questo ragazzo sin da subito, un amore a prima vista, che iniziò subito a solidificarsi di quelli che, ancora oggi, mi fa spuntare un sorriso sulle labbra, di quelli che non può competere che nessun altro tipo di amore”.

Una grande storia durata appena tre anni ma molto intensa, come se qualcosa li spronasse a vivere i loro giorni con intensità. Una storia spezzata, interrotta, ma, dal giorno dopo, è stato necessario continuare a vivere. “Ricominciare è molto faticoso – continua Rosaria -. Tutte le mattine ti devi svegliare sapendo che hai un bambino di quattro anni a cui voi dare una vita quotidiana normale anche se, in realtà, passano gli anni ma il papà non c’è. La cosa più brutta è che quanti ti sono stati vicini, dopo i primi giorni o al funerale, spariscono, ti rimangono solo i tuoi familiari e la solitudine. Si cerca una strada da percorrere e la mia mi ha portato prima a Firenze poi a Sanremo. Ho trovato fuori dalla Sicilia la serenità necessaria per far crescere Emanuele, nostro figlio. Ho percorso una strada in cui è possibile vivere, senza retorica o perenne tristezza. A Palermo lui era ‘il figlio del poliziotto ammazzato a Capaci’ e io ‘la vedova’. Questa cosa, se da un lato t’inorgoglisce, dall’altro ti fa male perché non è possibile essere orgogliosi della sconfitta dello Stato, quella sconfitta che ci ha fatto contare undici morti in 57 giorni”.

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