Secondo uno studio dell’Università di Padova un quarto di questi animali è morto a causa dell’uomo. l’84% dei grandi cetacei spiaggiati tra il 2008 e il 2019 aveva nello stomaco frammenti di plastica
di Oriana Sipala
PALERMO – Con il diffondersi del Covid-19 è diventato molto popolare il concetto di “one-health”, secondo cui esiste un’intima connessione tra la salute umana, quella animale e quella dell’ecosistema. Tutte le specie del mondo, insomma, sono tra loro interdipendenti e l’azione di una si ripercuote sull’equilibrio e la salute di altre.
La pesca illegale e la presenza di rifiuti plastici in mare sono chiari esempi di come le attività antropiche abbiano un forte impatto sull’ambiente, costituendo una grave minaccia. Il nostro mar Mediterraneo, purtroppo, non è esente da questa minaccia. Un recente studio dell’Università di Padova, commissionato da Greenpeace, sulle principali cause di spiaggiamento dei cetacei lungo le coste italiane, certifica infatti che un quarto di tali cetacei analizzati è morto per cause imputabili all’uomo. La principale di esse è l’intrappolamento degli animali marini nelle reti da pesca abbandonate (composte per lo più da materiale plastico non biodegradabile) e negli attrezzi da pesca illegali (come le spadare, vietate sin dal 2002, ma purtroppo ancora in uso).
Si stima infatti che il 5,7% delle reti e il 29% delle lenze viene perso annualmente in mare trasformandosi in un rifiuto potenzialmente pericoloso per almeno 800 specie di animali marini in tutto il mondo. E a questo proposito, è recente la notizia di due capodogli spiaggiati al largo delle Eolie e intrappolati proprio nelle spadare.
Un’altra grave causa, riconducibile ad attività antropiche, è la contaminazione da plastica. Secondo lo studio menzionato, l’84% dei grandi cetacei spiaggiati tra il 2008 e il 2019 aveva nel proprio stomaco frammenti di plastica. Lampante è l’esempio del capodoglio spiaggiato a Olbia agli inizi del 2019, che aveva nello stomaco ben 34 chili di rifiuti, di cui 22 di plastica. In genere, il materiale ritrovato è costituito da grandi teli di plastica di uso agricolo, borse e sacchetti di plastica, frammenti di corde, lenze, pezzi di reti e fili sia plastici che metallici. Tutte cose che, anche se non uccidono i cetacei, li debilitano, favorendo l’emergere di altre problematiche.
Una questione, dunque, da non sottovalutare, anche perché la presenza di plastiche e microplastiche nel Mar Mediterraneo è ormai più che accertata. Studi recenti, come si legge nel rapporto preso in esame, hanno contato sulla superficie del Mediterraneo oltre 2,9 milioni di frammenti di plastica galleggianti con dimensioni maggiori di 30 cm (i cosiddetti mega-debris). Se consideriamo che i mega-debris rappresentano solo un quarto di quelli galleggianti visibili (oltre 2 cm) si arriva a stimare più di 11,5 milioni di frammenti galleggianti visibili sulla superficie del Mediterraneo, senza contare la plastica accumulata nei fondali marini.
Tra le cause naturali dello spiaggiamento dei cetacei esaminati si rileva invece il virus del morbillo (CeMV), che tra il 1990 e il 2008 ha causato gravi epidemie presso la specie marina delle stenelle. Cinque dei sei capodogli analizzati, spiaggiati nell’estate 2019, sono infatti risultati positivi al virus. Secondo la ricerca commissionata da Greenpeace, il riemergere di tale virus anche nei cetacei è un segnale preoccupante, da associare ad altri stress ambientali. Non si esclude infatti il possibile ruolo di agenti inquinanti persistenti (come PCBs, DDTs, IPAs) nel favorire l’infezione, agendo sul sistema immunitario dei cetacei. Una quota di queste morti “spontanee” sarebbe quindi riconducibile ad attività umane, seppur indirettamente. Preoccupa inoltre il “salto di specie” di tale virus, che è arrivato a colpire anche mammiferi con vita parzialmente terrestre, come lontre e foche.
Siamo ben lontani da un’ipotesi di pericolo anche per l’uomo, in quanto i salti che il virus dovrebbe fare per arrivare alla specie umana sono ampi e complessi, ma è vero anche che gravi fattori di stress derivanti da attività antropiche (inquinamento, mancanza di cibo, riduzione delle popolazioni e spostamento in aree non abituali) possono alterare il comportamento di un virus in animali selvatici e permettere passaggi ad animali sempre più vicini all’uomo.