Un ex poliziotto e un carabiniere: ecco chi sono gli indagati dell'operazione Mondo Opposto, accusati di favoreggiamento nei confronti di Cosa nostra nel Nisseno.
Un ex poliziotto in pensione dai modi spartani e un appuntato dei carabinieri un po’ riservato. Sono i ritratti dei due uomini delle istituzioni che avrebbero contribuito a far sì che Alberto Musto, 37enne avvezzo alle risse e con un passato da studente universitario, potesse sentirsi il padrone di Niscemi. Per i magistrati della Dda, che hanno ottenuto il suo arresto insieme con altre 27 persone nell’ambito dell’operazione Mondo Opposto, Musto è l’attuale reggente della locale famiglia mafiosa ma anche al vertice del mandamento che fa capo a Gela.
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Chi è Alberto Musto
Un’ascesa iniziata tanti anni fa, seguendo l’esempio del boss Giancarlo Giugno, e che ha portato già a una condanna definitiva per mafia, ma che nel recente passato si sarebbe ulteriormente consolidata con atti utili a mantenere la leadership all’interno della criminalità organizzata e il controllo sul territorio. A finire nel mirino dell’uomo anche alcuni poliziotti, responsabili di fare il proprio mestiere e di non essere accondiscendenti così come l’agente che, stando alla tesi degli inquirenti che al momento è stata accolta dal gip del tribunale di Caltanissetta, sarebbe stato disponibile a rivelare informazioni sulle possibili indagini a carico del gruppo mafioso.
Gli auguri di Natale e la foto compromettente
Il mezzo migliaio di pagine di cui è composta l’ordinanza della giudice Graziella Luparello sull’operazione Mondo Opposto restituisce una fotografia controversa della presenza delle forze dell’ordine a Niscemi, cittadina di 25mila anime in provincia di Caltanissetta ma a ridosso di Caltagirone (Catania). Si trovano infatti all’interno vicende che hanno portato all’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa per un 55enne già ispettore di polizia, ma anche episodi di intimidazioni, alcune anche truculente, nei confronti di altri agenti.
Nel primo caso, a finire sotto la lente degli investigatori è stato Salvatore Giugno, in passato in servizio nella sezione di polizia giudiziaria del commissariato di Gela. L’uomo avrebbe spifferato informazioni a un ragioniere, di nome Carlo Zanti, che sarebbe stato uno degli uomini di fiducia di Alberto Musto e per questo motivo anche lui arrestato. A Zanti, l’ex ispettore di polizia avrebbe segnalato la presenza di microspie e telecamere nascoste nei pressi di un bar. I fatti accadono nella primavera dello scorso anno ed emergono da diverse conversazioni intercettate. In una di queste, a parlare sono lo stesso Alberto Musto e il fratello Sergio, anche lui tra gli arrestati: “Ouh non dobbiamo parlare più da Vestro e soprattutto nei luoghi dove stiamo sempre”, dice il primo, specificando di avere avuto l’informazione dal ragioniere Zanti, il quale a sua volta era stato informato da Giugno. “Gli ha detto a Carlo (Zanti): ‘Vedi che dove si trova Alberto (Musto) è tutto tappezzato, già da dieci-quindici giorni’”.
Per gli inquirenti, non è escluso che Giugno possa avere fatto questi favori in cambio di denaro. Appare invece certo l’imbarazzo provato dall’ex ispettore il giorno in cui è finito ritratto in una fotografia assieme al presunto reggente mafioso di Niscemi. Uno scatto frutto di una furbata di Zanti e Musto, con i due che avrebbero, tra il serio e il faceto, anche minacciato l’ex poliziotto di diffondere l’immagine: “Vedi che ora la mando alla Dda a Roma”, avrebbe detto Zanti a Giugno. Altrettanto assodato, secondo la tesi della Procura, sarebbe stato il rapporto di confidenza fra i tre: agli atti dell’indagine c’è un incontro nello studio di Zanti, alla presenza di Musto e Giugno, avvenuto il giorno di Natale.
Il carabiniere educato
A finire nell’indagine, destinatario della sospensione dal servizio per un anno e del divieto di dimora nelle province di Caltanissetta, Agrigento, Catania ed Enna, è il 44enne carabiniere Giuseppe Carbone.
Appuntato a Gela ma originario di Niscemi, il militare è accusato di favoreggiamento aggravato per avere aiutato un barista, anche lui ritenuto sodale di Alberto Musto, a interpretare la genesi e l’esecuzione di alcune perquisizioni domiciliari a due esponenti del clan, precedentemente fermati su strada dalle parti dell’abitazione di Musto e poco prima di partire per compiere una rapina.
Carbone avrebbe spiegato che se la perquisizione non era stata estesa alla casa di Musto ciò poteva dipendere dall’esistenza di un’indagine più corposa a carico del presunto capo della famiglia mafiosa. Tanto era bastato a Musto per elevare il livello di attenzione. “Questo Peppe (Carbone) è un ragazzo che non parla”, spiega il barista a Musto, sottolineando l’importanza delle informazioni ricavate.
Alberto Musto e la testa di maiale al poliziotto: “Era pallido”
Al di là delle specifiche vicende che vedono protagonisti Salvatore Giugno e Giuseppe Carbone, verso le forze dell’ordine Alberto Musto e i suoi uomini avrebbero nutrito livore al punto da immaginare in più di un caso di attuare intimidazioni nei loro confronti.
A innescare i propositi di Musto sarebbero stati anche episodi di poco conto, come un controllo su strada con tanto di multa per mancato uso della cintura di sicurezza o uno sguardo di troppo nel corso della apposizione della firma in commissariato. E se quando si è trattato di dare fuoco a un’auto o sparare al sedile di un’altra vettura degli agenti, i propositi non si sono concretizzati; a essere stato portato a compimento è stata una minaccia che di solito non viene riservata agli esponenti delle forze dell’ordine: fare ritrovare una testa di maiale davanti all’abitazione.
Destinatario dell’intimidazione anche in questo caso un poliziotto: “Minchia, era pallido quando l’ha trovata la mattina”, fu in quel caso il commento di Musto.