Affaire Mameli, se anche sulla paternità dell’inno nazionale l’Italia s’è… divisa - QdS

Affaire Mameli, se anche sulla paternità dell’inno nazionale l’Italia s’è… divisa

redazione

Affaire Mameli, se anche sulla paternità dell’inno nazionale l’Italia s’è… divisa

Giuseppe Paternò Raddusa  |
sabato 08 Giugno 2024

Non si ferma la disputa tra gli storici in merito alla genesi del “Canto degli italiani”. Alcuni studiosi sostengono che il giovane Goffredo prese le parole dal maestro padre Canata

Siamo ancora e sempre così legati alle sfumature telefonate che “Nel blu, dipinto di blu” (1958, Migliacci – Modugno) la intitoliamo “Volare” solo perché il verbo all’infinito catalizza il ritornello – e parliamo della canzone italiana più famosa al mondo, non di roba ascoltata in streaming. È lo stesso principio, più o meno, con il quale pigramente scegliamo un nome di qualcosa rispetto a quello reale: il principio secondo cui spesso non sappiamo niente, di nessun argomento, perfino di quelli che riteniamo di padroneggiare. Esempio pratico. Se, come va tanto di moda nei reel, vagabondassimo in giro chiedendo alla gente comune (sic!) quale sia il vero nome dell’inno di Mameli, dovremmo dare una medaglia al valor civile a chi risponde “Canto degli Italiani”.

C’è una frangia che potrebbe tentare un “si chiama Fratelli d’Italia”, corroborata dalla nomenclatura di un partito che il Canto se l’è scelto come portatore dei suoi valori (credendo forse che agli altri non interessino) o dal fatto che l’inno cominci proprio così. Quasi nessuno, ci si possono giocare appartamenti e preziosi, risponderà mai “Canto degli Italiani”. Ancora una volta: non sappiamo niente. E non è che una delle tante particolarità legate alla poesia di Goffredo Mameli con musiche di Michele Novaro, composta nel 1847, tra ondate di patriottismo e l’unificazione (quasi) all’orizzonte.

Il giovane Mameli, nato a Genova nel 1827, è figlio di Giorgio, tenente di vascello della marina sarda, e di Adelaide Zoagli, di famiglia potente e amica d’infanzia di Giuseppe Mazzini. È Goffredo, a distinguersi per aver dato le parole alla poesia che oggi “ci” rappresenta, ma che fino al 2017 era inno nazionale provvisorio. Il canto, eseguito per la prima volta a Genova durante una festa popolare e poi subito proibito, sarebbe diventato molto presto l’inno del Risorgimento e degli anni successivi all’unificazione, sarebbe stato oscurato (che strano!) dalle canzonette fasciste in voga nel ventennio per poi essere scelto da Alcide de Gasperi e il suo Consiglio dei Ministri, nell’ottobre del 1946, quale inno. Provvisorio. “Su proposta del Ministro della Guerra si è stabilito che il giuramento delle Forze Armate alla Repubblica e al suo Capo si effettui il 4 novembre p.v. e che, provvisoriamente, si adotti come inno nazionale l’inno di Mameli”. Capito? E provvisorio ci è rimasto per settant’anni: è con la legge 4 dicembre 2017, n. 181, che la Repubblica riconosce il Canto scritto da Mameli e musicato da Novaro come inno nazionale.

Per quasi un secolo, quindi, ci siamo sentiti italiani cantando un inno che non era manco definitivo. Nel 2006, sotto il cielo di Berlino e di altre città tedesche, i nostri calciatori – probabilmente stringendosi a “corte” e non a “coorte” – sillabavano una poesia non istituzionalizzata. Siccome non sappiamo nulla, ignoriamo anche – forse – che per anni si è cercato un sostituto che potesse prendere il posto del Canto di Mameli-Novaro, con Va’ pensiero di Giuseppe Verdi come concorrente più temibile. A nessuno, però, è mai interessato davvero di imparare a memoria qualcosa che andasse oltre “Va’ Pensiero sull’ali dorate” e sostituire il Canto, con buona pace del sentimento Padano.

Il giovane Mameli lo scrive a vent’anni, il buon Novaro lo riceve, se ne innamora lo musica, e la canzone diventa subito rivoluzionaria negli anni in cui i giovani combattenti del Risorgimento sono pronti a morire – e muoiono – pur di difendere la patria dall’invasore. All’epoca fu accolto come qualcosa di (pardon) rivoluzionario, dirompente e al contempo aulico, tra personificazioni, simbologie e richiami alla Roma antica, trasmettendo tutta la passione romantica e appassionata del giovane Mameli, di recente protagonista di una miniserie che lo trasforma in un personaggio pop, un divertito mix tra Holden, Lorenzo Fragola e Sangiovanni.

E un’icona pop forse lo è davvero, quel Mameli che sarebbe morto ventiduenne nel 1849, ferito a una gamba mentre combatte a fianco di Garibaldi nei giorni della Repubblica Romana; quello stesso giovane Mameli verso il quale si addensano le nubi del plagio, del furto d’idea. Ancora una volta, non sappiamo nulla, e forse non ricordiamo nemmeno dell’indiscrezione secondo cui Mameli avrebbe rubato le parole del suo Canto a uno dei maestri del collegio degli Scolopi di Carcare da lui frequentato: Atanasio Canata, drammaturgo e poeta apprezzato e di grande spessore. Canata, in un’ode realizzata a Pio IX, avrebbe usato “la patria chiamò”, che i più attenti hanno subito associato all’Italia chiamò della canzone mameliana.

È lo storico Aldo Alessandro Mola ad aver mosso questa accusa al Canto di Mameli-Novaro – sì, non dimentichiamoci già del povero Novaro, per favore, che già abbiamo scoperto di non sapere troppe cose, e che se facciamo “parapà” tra un verso e l’altro lo dobbiamo a lui. Secondo Mola, la levatura intellettuale di Canata si prestava alle parole e alla profondità del testo con maggiore pertinenza rispetto alla giovane età di Goffredo Mameli. Che, secondo la ricostruzione dello storico, sarebbe stato troppo discolo per ambire a uno stile così sofisticato come quello del Canata.

Ci sono diverse notizie, anche sul web, che dimostrano come questa “rivelazione” avrebbe scosso diverse comunità, tra il Savonese e l’Alessandrino, pronte a dar per certa la paternità del Canto a padre Canata. Questa teoria, però, è stata smentita da diversi storici, non ultimo Michele Calabrese, che in Quaderni del Bobbio n. 3 marzo 2011 ricorda come negli anni Anton Giulio Barrili ha ricostruito con grande precisione la genesi del canto di Mameli attribuendone a lui la paternità. Quel Barrili che a Canata era legato, essendone stato allievo, come ricorda Calabrese. Il talento di Mameli come “autore”, tra l’altro, era stato notato anche grazie ad altre opere realizzare negli anni del collegio che non fossero il Canto, e che per esempio avevano incontrato, dopo la morte di Goffredo, il favore di Giosuè Carducci.

Ed è ancora Calabresi a rilevare che “scorrendo i componimenti politico-patriottici di Mameli del 1846-47 si riscontra invece un ricorrente bagaglio di immagini, di temi, di moduli espressivi che ne caratterizzano la cifra stilistica”. Non ultimo, il corpus di quaderni custoditi all’Istituto Mazziniano rivela un Mameli tutt’altro che discolo, ma in grado di accordare input ricevuti dallo studio di Tito Livio all’amore per Parini e Voltaire. Canata, in alcune rime polemiche da lui composte, avrebbe denunziato il furto: “Meditai robusto un canto/ma venali menestrelli/mi rapian dell’arpa il vanto/sulla sorte dei fratelli”, ma anche qui non c’è un diretto riferimento al Mameli, e tra l’altro pare che quei fratelli avrebbero potuto essere dei confratelli del Canata con sfrenate ambizioni letterarie.

Insomma: al di là di ogni polemica e ogni presunzione di paternità, il tema è che ancora una volta di tutte queste vicende, ormai smagliate dalla voracità del tempo, possiamo scoprire poco. E in fondo va bene così. Perché è meglio non sapere, che alludere alla possibilità che un giovane rivoluzionario morto sul campo (anche se pare potrebbe essere stato ferito da un commilitone distratto), si sia intascato dei versi consegnandosi alla storia. Anche perché, inutile nasconderselo, chi è che ha idea di come continui l’inno nazionale – ops, il Canto degli Italiani – dopo la prima strofa?

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