Catania, Coronavirus, la vita in reparto raccontata da Eugenia - QdS

Catania, Coronavirus, la vita in reparto raccontata da Eugenia

Melania Tanteri

Catania, Coronavirus, la vita in reparto raccontata da Eugenia

sabato 28 Marzo 2020

Cronaca dalla "trincea" dell'Ospedale San Marco di Catania. L’emergenza vista da una giovane medico: “Nessuno era pronto”. Turni lunghi, estenuanti, vestiti di tutto punto per evitare di esser contagiati. "La doccia è un'ossessione"

CATANIA – Ogni giorno è una nuova sfida, per chi è impegnato in prima linea per l’emergenza coronavirus. Medici, infermieri, personale sanitario sono in trincea per sconfiggere l’invisibile nemico che, in poco più di un mese, ha di fatto messo in ginocchio l’Italia. Compresa la Sicilia dove Catania spicca per il più alto numero di ricoverati e di contagiati. Sforzi fisici ed emotivi ripagati dalla consapevolezza di fare il proprio dovere, a servizio degli altri, dai sorrisi di chi supera il momento drammatico, dalle parole di incoraggiamento.

Una missione che costa a chi la compie. Soprattutto se giovane e alla prima, grande, esperienza. Come Eugenia, medico di emergenza urgenza al San Marco di Catania, che ci offre uno spaccato di vita in reparto, e a casa, nel tempo della grande pandemia del XXI secolo.

La doccia è diventata una ossessione” – ci confessa, nel corso di una chiacchierata “strappata” in occasione del suo giorno libero. È un giovane medico, Eugenia, seppur con esperienza; per lei, da strutturata, è però la prima, grande, emergenza. “In realtà – spiega – questa malattia è completamente nuova e ci rendiamo conto di essere tutti più o meno neofiti. Nessuno era pronto ad affrontare quello che sta succedendo. Stiamo iniziando tutti da zero, cambia poco che tu abbia 50, 40 o 30 anni”.

Per tutti la giornata è dura. Turni lunghi, estenuanti, vestiti di tutto punto per evitare di esser contagiati. “Quando siamo in reparto siamo ben organizzati – spiega -. Ci son due medici per turno, mattina, pomeriggio e notte. Uno sta nella zona dello “sporco”, la zona covid-19, e l’altro resta nell’area “pulita”; questo, per ridurre al minimo l’esposizione ed evitare che tutti debbano stare vestiti tutto il giorno”.

Più che vestiti, bardati. Al San Marco, al momento, i dispositivi di protezione personale ci sono, anche se, come in tutta Italia, iniziano a scarseggiare. “Indossiamo tuta bianca, calzari, tre paia di guanti, occhiali di protezione e la mascherina appropriata, la FPP3 – continua la dottoressa. I turni sono pesantissimi – sottolinea: già il solo fatto di stare sette ore chiusi dentro questa tuta, senza poter bere, fare pipì. Non ci si può grattare, toccare. Gli occhiali si appannano, la mascherina ti distrugge la faccia. Ma bisogna sopportare in silenzio”.

Nonostante tutto, l’umore resta buono in reparto. “Certo, si ha a che fare con pazienti che, poverini, sono soli, non vedono più i loro parenti perché non è consentito l’ingresso ai visitatori. Ma il gruppo medico è compatto – evidenzia – si conosce e siamo persone che lavorano insieme da un po’. C’è un forte spirito di collaborazione, tra noi, gli infermieri e tutto il personale del reparto, personale fondamentale e che ringrazio perché corrono gli stessi rischi dei medici e senza di loro non si potrebbe andare avanti. Anche chi è a casa supporta. Sapere di non essere soli aiuta – aggiunge: la nostra responsabile è una persona eccellente da tutti i punti di vista, e anche questo fa sentire più tranquilli. E poi siamo supportati al cento per cento dall’azienda che ci sta vicino”.

Giornate lunghe e dure, che regalano ogni tanto piccoli spiragli. “L’altra notte ho avuto tre pazienti che si sono complicati – racconta Eugenia. Non mi sono staccata un secondo, dedicandomi come gli altri, in maniera totale. Tornare a casa sapendo di essere riuscita a evitare l’intubazione, mi ha ripagata un po’ dei sacrifici”.

Che sono tanti quelli da fare, in questo momento. A maggior ragione se lavori in prima linea e sei a contatto con tanti contagiati. “Dal punto di vista emotivo è difficile – confessa – ma bisogna adattarsi rapidamente. Non c’è alternativa. Imparo ogni giorno qualcosa di più. È una malattia nuova e ogni giorno cresce l’esperienza sulla gestione di questi malati. Ogni giorno ti insegna qualcosa, della malattia e di se stessi. Io ho scoperto risorse che non sapevo di avere”.

Uno sforzo emotivo che Eugenia condivide con il marito. Ma solo con lui. “Per tutti noi c’è la preoccupazione, oltre per il lavoro, di tornare ogni giorno a casa sapendo di poter essere fonte di contagio per chi si ama – spiega. Mille volte ho detto a mio marito di andare via di casa ma lui non lo fa. E io aggiungo meno male: credo che questa sia una delle cose che mi danno più forza, anche se è un peso sapere che c’è una persona a cui vuoi bene che rischia perché non vuole lasciarti sola. Ma i miei genitori – conclude – non li vedo da un mese”.

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