Perché le forme della cultura materiale sono capaci di realizzare immensi benefici, dalla città agli oggetti d’uso, a qualsiasi scala
In questa rubrica, mi sono impegnato a voler mettere in luce le traiettorie d’efficacia inerenti il recupero, la ri-funzionalizzazione e la riqualificazione ambientale, e sociale, di brani del tessuto urbano o di interi contesti ambientali, particolarmente esposti al degrado. A ragione di ciò, ho operato(e continuerò a farlo per voi, miei cari lettori) il coinvolgimento di alcuni protagonisti di tali pratiche, di efficaci processi di determinazione di traiettorie di assolvimento di problematiche complesse, attraverso lo strumento del progetto. Oggi ho inteso raccogliere le riflessioni di Isidoro Pennisi, architetto e docente del Dipartimento di Architettura e Territorio dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria.
L.P. Bene, quali sono, secondo te, le traiettorie di induzione alla partecipazione attiva della utenza, che noi designer possiamo innestare attraverso l’esercizio, gigantesco ed illimitato, inesauribile, del potenziale connesso alla frazione ludica, giorno per giorno, istante per istante? È un potenziale energetico incommensurabile ed estremamente efficace, se ci pensi…, basterebbe metterlo in esercizio con le opportune procedure.
I.P. Io credo che le forme della cultura materiale siano capaci di realizzare dei benefici. A qualsiasi scala. Dalla città agli oggetti d’uso. Benefici di vario genere legati ovviamente al tipo di attività e di tempo cui sono destinati. Se vogliamo usare una divisione del tempo della vita attiva, così come descritta da Hanna Arendt, allora esistono cose che assistono il tempo del lavoro; cose che assistono il momento dell’agire; cose che assistono il tempo dell’operare. Senza qui spiegare la loro differenza (che si può però trovare nel volume Vita Activa) io però dico che in questa ripartizione manca un tempo importante della vita attiva: quello della ricreazione. Un tempo che potremmo definire anche sabatico, in cui, sospese le attività lavorative (e le altre) l’essere umano può ricrearsi, soprattutto attraverso il gioco o un rapporto giocoso con gli altri e con l’ambiente (urbano o domestico). Un progettista, dovrebbe provare a dare delle risposte progettuali con contenuti ludici anche a domande che spesso non sembrano contenerne. Ad esempio, io credo che le sedute curvilinee e colorate di Park Guel di Gaudi, che sono oggetti con una funzione precisa, abbiano un contenuto ludico e giocoso, se pensiamo che esse sono state formate in quel modo per permettere l’Arte dell’Incontro (che nelle sedute normali trova difficoltà) tra esseri umani. Cosa c’è di più giocoso di esseri umani che s’incontrano senza essersi dati un appuntamento?
L.P. Nei miei scritti parlo spesso di Design Therapy, quale nuovo ‘bisogno’, in un’era in cui tale termine è stato destituito dal termine ‘desiderio’, ovvero della realizzazione di serie di azioni concrete nella nostra vita reale, per la realizzazione di un Paesaggio Risonante. Come pensi possa essere accolta, dagli enti competenti, tale procedura di realizzazione di uno scenario attivo nei nostri contesti territoriali?
I.P. Come ho detto prima, le forme hanno la capacità di essere un beneficio per gli esseri umani e, allargando il concetto, anche una terapia per alcune patologie soprattutto sociali. Non sembri banale, ma se l’arte, anche Pop, ha un senso, è indicativo che in una famosa canzone italiana degli anni settanta, che parla di una città come Roma, a un certo punto essa diventa, in maniera esplicita, un manifesto sulle capacità dell’artificiale di produrre benessere e comportamenti ritenuti di valore. “Vedo la maestà der Colosseo, Vedo la santità der cupolone. E so’ più vivo e so’ più bbono”. Due noti manufatti edilizi; due prodotti della cultura materiale, secondo Venditti hanno la capacità, almeno in un momento, pur breve, dentro il tramonto di una giornata, di rendere una persona migliore: più viva e più buona. Gli oggetti d’uso, gli edifici, le città, hanno nella loro forma, nei contenuti formali ed estetici, la capacità di fare del bene o anche del male. Una grande responsabilità, quindi.
L.P. Quali limiti possiede uno strumento di pianificazione e governo dei nostri contesti ambientali, quale è quello del PRG che, per definizione ha una durata illimitata, in un’era in cui i profili d’esercizio sempre più dichiarati, delle volte con grande spudoratezza e poca adesione ai feroci parametri propri della realtà concreta, sono quelli propri della Smart City?
I.P. Il problema degli strumenti urbanistici in vigore, sono gli stessi delle nostre comunità contemporanee, e più in generale delle Democrazie Liberali. Una delle caratteristiche delle Democrazie Liberali è sottoporre a verifica di voto, periodicamente, una data maniera di governare la città. Capita sempre, che chi si propone di sostituire il governo in carica, ha un progetto politico finalizzato ad arrestare ciò che sta avvenendo e iniziare una cosa diversa, cui si chiede adesione attraverso il voto. I tempi della democrazia, l’alternare politiche urbane diverse, volontariamente e strumentalmente diverse, non collimano con i tempi necessari alla città per svolgere i suoi processi di trasformazione e adattamento ai cambiamenti. Una città intelligente, era quella in cui era chiaro quest’aspetto, cui tutti si piegavano, anche nel caso in cui si andava a sostituire, democraticamente oppure meno, chi governava la città. Una città, una comunità, dovrebbe avere sempre l’idea di un testo legato a tempi sovra biografici dentro i quali sviluppare concetti e disgressioni che direttamente possano rispondere all’imprevisto, all’urgenza, all’inedito, che il testo non ha previsto e non poteva immaginare, come un Concerto dei Pink Floyd a Venezia in Piazza San Marco.
L.P. Come si conciliano questi due profili d’intervento, in un contesto urbano che non può fare più a meno di dover accogliere nella determinazione dei suoi parametri d’ingaggio e d’esercizio termini quali “temporaneità”, “provvisorietà”, “mutabilità”, “impermanenza”?
I.P. Lunga vita al provvisorio. In uno slogan potrebbe esserci una risposta. La cultura materiale, soprattutto nella produzione di oggetti d’uso, ha sempre lavorato per il provvisorio. Ogni artigiano che produceva anfore oppure elementi di arredo per le case Patrizie Romane sapeva benissimo che il suo lavoro dipendeva dal fatto che la durata di quegli oggetti non era infinita e, una volta consegnato il prodotto, già si apprestava a lavorare o per sostituirlo per via del consumo o per innovazione. Però basta un’eruzione piroclastica che seppellisce una città come Pompei, per far arrivare sino a noi tutte quelle cose ritenute provvisorie. Questa è più di una metafora. Se la vogliamo prendere come tale, la lezione è che ogni volta che pensiamo e realizziamo un pezzo di cultura materiale esso è provvisorio ma sappiamo anche che gli eventi potrebbero renderlo eterno, o quasi. Una canzone e un libro hanno poche probabilità di sopravvivere a se stesse. I manufatti, invece, si assumono la responsabilità di dire al futuro chi erano coloro che li hanno prodotti.
L.P. Con il salto nel nuovo millennio, si è mostrata sempre più irrevocabile la questione del ridisegno, in maniera continuata, del nostro scenario di prossimità, specie alla luce della comparsa di nuove problematiche di relazione dinamica tra entità ed individui presenti in un contesto urbano, ora resi particolarmente pressanti in ragione della presenza e dell’alternarsi di crisi economico-finanziarie, ambientali, sanitarie.
I.P. Se per ridisegno intendi un nuovo assetto estetico e formale delle risorse artificiali già esistenti, quindi riuso, riabilitazione, riconfigurazione dell’esistente attraverso l’esistente, e non diradando e ricostruendo, credo di poter dire che questa sia una delle consuetudini più antiche che, però, avevamo smarrito. Obtorto collo, e per tanti motivi, esiste oggi una convenienza e una necessità a far prevalere, lì dove si può, un’estensione progettata della durata della cultura materiale esistente.
Cattedrale di Siracusa
L.P. Già il mio amico Francesco Morace, sociologo e fondatore del Future Concept Lab descrive la penisola italiana come un immenso, risonante, emittente Laboratorio creativo dal potenziale gigantesco. Pensi che la soluzione possa passare attraverso la costituzione di una costellazione di Design Lab Permanenti, parte di una più grande sovrastruttura, capace di poter accogliere, in tempo reale, istanze e professionalità altamente specialistiche al suo interno?
I.P. L’Italia, il Mediterraneo, è un Museo a cielo aperto, che nelle more della discussione sul futuro e la qualità del progetto europeo, può offrirsi e organizzare una grande impresa formativa, di lungo periodo, incentrato sulla Cultura Materiale, contando sull’esperienza storica del Gran Tour. L’Italia può farlo dislocando in maniera diversa i flussi turistici, non concentrando le novità sui luoghi già favoriti dall’attuale offerta turistica, ma utilizzando questo Museo a cielo aperto, nelle sue parti territoriali ricche di reperti e testimonianze ma disagiate e periferiche per via di un’inadeguatezza nell’accessibilità e nelle strutture ricettive. Può, in sostanza, non solo offrire un progetto esclusivo e avanzato di turismo formativo, aumentando i flussi in un settore in cui il numero di giorni di presenze necessarie sono superiori per ogni singola unità in arrivo, ma attraverso questo progetto può contribuire alla riabilitazione di aree del Paese d’incredibile bellezza, fragili nel rapporto tra strutture e standard contemporanei di vita urbana, che però in passato sono già state meta del Gran Tour, e quindi ne hanno una coscienza storica. In principio, si potrebbe concentrare e sperimentare questa ipotesi su un’area del Paese, chiamando a raccolta, ad esempio, quattro enti regionali, le sue principali amministrazioni urbane, e le sue Università. Sicilia, Calabria, Basilicata e Puglia: lo Jonio. Esistono un Privilegio e un Colore tra le Coste Elleniche e Magno Greche. I loro nomi sono Fortuna di Jonio e Tintura di Jonio, e sono curative: per il corpo e lo sguardo. Sono le tensioni, la natura inquieta, le contraddizioni, le notizie profonde, le onde di un umore, che trasformarono un grande bacino d’acqua salata in Colei che fu amata da Zeus e, ovviamente, per gelosia, perseguitata da Era. Per sfuggirle, Colei che ancora non si chiamava Jonio, si mise a nuotare dentro una distesa liquida d’azzurro, ancora senza nome. Una bracciata dopo l’altra, quell’acqua senza destino si aprì al passare del suo corpo, e si fece di lato, allargandosi a nord sino al Golfo di Taranto e a Sud sino a Siracusa, diventando miracolosamente un Mare. Lo Jonio è la realtà geografica e cardiaca con cui un’emozione fece spazio all’incanto.
L.P. Dal cucchiaio alla città.
A mio avviso, questa frase potrebbe essere il necrologio di tutta la stagione dell’utopia modernista, spazzata via dalla pochezza dei suoi contenuti umani. In ogni caso, oggi potrebbe essere mutuata in dal cucchiaio alla citta’ e dalla città al cucchiaio!. Chiudendo il cerchio, una volta per tutte, senza indugi, con la ferocia, benefica ed augurale, persino formativa, del buon padre di famiglia. Tu sei ricercatore nelle discipline di…, sei/siete condannato/i a vivere a contatto con quelle che saranno le generazioni dei futuri designer, questa nuova generazione di designer sarà chiamata all’assolvimento di un compito tanto entusiasmante quanto gravoso, quello della realizzazione di un nuovo scenario esistenziale. Quale potenziale di accoglimento di questa sfida, tutta imperniata attorno alle questioni di progetto, intravvedi in questa generazione?
I.P. Dal cucchiaio alla città, fu uno slogan efficace per assemblare l’intera Cultura Materiale, a partire, però, da ciò che più era alla portata delle nostre mani: l’oggetto d’uso. Era necessario assemblare ciò che specialisti e artigiani, architetti e maestri della materia, ingegneri e agricoltori, facevano separatamente arrivando, però, insieme a definire l’ambiente artificiale o, come dici tu, lo scenario esistenziale? Se andiamo oltre la definizione o lo slogan, la cosa chiara è che quel concetto d’ordine è uno dei tanti che sono stati definiti e partoriti dalla cultura Nordica e Anglosassone. Se qualcuno provasse a leggere almeno la metà (anche due o tre a saltare vanno bene) delle 95 Tesi che Lutero, una volta scritte di suo pugno, andò ad inchiodare al portone della Cattedrale di Wittenberg, capirebbe bene cosa voglia dire essere Nordici, e cosa loro pensino di noi, ancora adesso. Per loro noi siamo degli irrecuperabili libertini e anarchici; delle persone, in sostanza, che in nome della più profonda libertà individuale, sono capaci di trasformare in un disastro collettivo, anche una grande idea, mentre loro sono specializzati nel fare diventare organizzata e funzionale anche un’idiozia disastrosa, conclamata, evidente anche guardandola da Plutone. Il problema non è ribaltare la definizione, ma rivalutare e dare sostanza a un approccio Mediterraneo alla vita, che non abbia le illusioni ingenue calviniste, protestanti, della cultura Occidentale a trazione nordica, ma si basi sulla funzione che ha l’errore, la casualità, la leggerezza, l’arbitrio, la dissonanza. In sostanza, Camus ha ragione. Il contrario di un popolo civile è uno creatore.
L.P. Quali sono le loro traiettorie d’ingaggio, non percepite dai designer che li hanno preceduti?
I.P. La sola traiettoria, forse per via della mia età, è quella nutrita da un’arcaica convinzione in cui due cose mi sono chiare: le mani pensano e gli occhi conoscono. Le mani possiedono una tecnica e gli occhi hanno una coscienza. Le mani sanno fare le cose e gli occhi sanno imparare dalle cose.
L.P. La Natura si riappropria del suo potenziale creativo, esibendo una ricchezza di contenuti, di elementi generativi estremamente seducenti e, di una forza devastante, ed io non nutro ormai alcun dubbio, sull’inefficacia di un mondo troppo progettato, troppo disegnato, un mondo ostile ad ogni possibilità di riconoscimento del vivere umano. Quale è il tuo pensiero in merito a tale riflessione?
I.P. La natura non ha mai dismesso il suo potenziale creativo. Secondo me, intossicati dalle discussioni intorno alla questione ecologica, che esiste, ma non secondo i paradigmi che abbiamo formulato, la sottovalutiamo tanto da volerla finanche proteggere, come se fosse un soggetto debole. Il rapporto tra uomo e natura è un rapporto univoco, nel senso che il guadagno o la perdita nel rapporto è tutto dell’uomo. La natura fa a meno di noi in maniera brillante, riconfigurando equilibri, ridisegnando strategie. Non serve avere conoscenze incredibili per avere coscienza del peso reale dell’influenza umana sul destino misurabile in miliardi di anni, sia come passato sia come futuro, della natura. Se qualcuno ha un giardino (o se una cittadinanza come Catania possiede un grande polmone verde come la Villa Bellini) basta che chiuda casa e vada via per un anno o due, e al ritorno vedrà di cosa è capace la natura, e di come sia autosufficiente. Io ho una Bouganville, in giardino, che se la lasci in pace per qualche mese (un paio, non di più) te la ritrovi la mattina in cucina che si prepara il caffè. La questione della natura è degli esseri umani che, se non instaurano con essa un rapporto intelligente, corrono il rischio non di distruggere la natura ma se stessi, i propri stili di vita, come sta avvenendo. Se domani scomparissero gli Elefanti, la natura, semplicemente, coprirebbe questa scomparsa con un altro tipo di presenza e un diverso equilibrio. Siamo noi che perdiamo definitivamente qualche cosa, non la natura. E questo è grave. Pero, contrariamente a quanto ormai si pensa, è la capacità innaturale della cultura a stabilire i migliori equilibri con la natura. E’ una forte progettualità a consentirci di mantenere con la natura un rapporto valido per la vita sulla Terra. Per finire. L’Architettura (ma io direi tutta la Cultura Materiale) è ciò che la Natura non sa fare. Quando cala la tensione dell’artificiale, iniziano i problemi.
L.P. “In qualunque caso si può simulare, tranne quando si tratta dei luoghi. Un uomo, in ogni condizione, deve potersi mettere in un angolo con la certezza che è il suo, almeno per un po’, o che nessuno lo manderà via di lì. Tutto il resto viene dopo”.
Questa frase, tratta da “Un uomo temporaneo”, di Simone Perrotti (Frassinelli, 2015, NdA), ci introduce al quesito inerente all’attualità del concetto di Genius Loci ed al riconoscimento, da parte degli individui sociali, in una matrice identitaria legata al contesto ove si snoda la nostra esistenza. Cosa accade nell’era digitale, ha ancora senso parlare di taluni concetti, per noi dapprima considerati imprescindibili, nell’esercizio della questione di progetto?
I.P. La questione dell’identità ormai è difficilmente trattabile per via di banali fraintendimenti culturali e politici. Se non avessimo tra i piedi una cultura politica e sociale costruita intorno ad una serie di dicerie, di superstizioni, che, al confronto, chi crede che la Terra sia Piatta sembra un Illuminista, sarebbe elementare tornare ai tempi in cui l’Identità non era altro che un’eredità complessa senza testamento. Dentro questa eredità, ci sono elementi che nemmeno si possono rifiutare, come invece avviene nelle eredità tra umani. Tra ciò che non è possibile rifiutare c’è la Geografia e i suoi derivati culturali, che per ciò che riguarda il profilo antropologico di una comunità sono molto più determinanti di qualsiasi altra cosa. Essere Etnei, ad esempio, vuol dire avere la precisa idea del perché questo vuol dire non essere esattamente dei Siciliani. L’Etna, la sua geografia mutevole, il suo modo di trasformare se stessa e chi vive ai suoi piedi, ha formato una cultura urbana che diversamente dal resto della Sicilia si basa sui legami sociali e non sui nuclei sociali (famiglia, gruppo, classe). Catania è il suo spazio pubblico, ed è vissuta da cittadini prima ancora che da persone. E questo per il semplice ed evidente fatto, che dall’Etna ci si difende insieme e non da soli. Migliaia di anni di rapporto con l’Etna, hanno formato una comunità urbana che per motivi di sopravvivenza, e non politici, ha la necessità di legami sociali continui, che rendano immediato e più facile il raccogliere le forze quando l’Etna chiama alla difesa della città. Non è un caso, che Camilleri, abbia fatto nascere Montalbano a Catania. Montalbano non si accontenta dei compiti istituzionali cui è obbligato nel suo mestiere, ma s’impiccia, fa sue, si compromette, nelle vicende che non lo riguardano sia come Commissario e sia come uomo. E’ un Catanese. I Siciliani non sono così. Anzi. Sono l’opposto. Cosa può fare il digitale contro questa realtà? Nulla, ovviamente.
L.P. Conosco il tuo designer preferito, sono io. Ahahahahah… Scherzi a parte, hai un designer che ami profondamente?
Un Autore che ti appassioni in maniera irriducibile al punto da indurre i giovani allievi ad analizzarne i criteri d’intervento, per la costituzione di un loro personalissimo approccio di metodo nell’ambito di diverse discipline di progetto, differenti ambiti applicativi.
I.P. Senza dubbio alcuno Enzo Mari. Devo a lui, pur non essendo io un designer e non avendo assolutamente il talento e le capacità per esserlo, la cosa fondamentale che so nel campo delle capacità inventive. “Nei musei non c’è nessuno, posso restare da solo per ore a guardare, a scrivere note sul mio taccuino. La bellezza mi emoziona, mi colpisce al cuore, ma questo per me non è sufficiente: voglio capire a tutti i costi come ci si arriva.” Ancor prima di conoscerlo e studiarlo, nel mio piccolo, nel provare a farmi strada nell’intreccio del sapere, anche io ero arrivato ad una conclusione simile. A me non interessa ciò che vedo, ma interessa capire come abbiano fatto a realizzare quel prodotto che m’incanta. A me non interessa l’esito, ma la maniera con cui si è arrivati a quell’esito. Punto. Per me un processo creativo si apre e si chiude in questo concetto. Credo che Enzo Mari lo abbia detto meglio di me, e abbia prodotto risultati che confermino che ha ragione lui. Inoltre, quest’atteggiamento, contiene la modestia, la generosità, che un progettista deve avere. Che un essere umano deve avere.
L.P. Cosa puoi dirmi del tuo approccio di metodo?
I.P. Come dicevo prima, ma aggiungendo il parere di un altro personaggio della nostra storia del design: “da cosa nasce cosa” (Bruno Munari, NdR). Per essere più preciso e coerente con ciò che ho già detto però provo a ridirlo in modo diverso da Munari: dal come si è arrivati a far nascere una cosa si capisce come generarne un’altra. Uso gli occhi per capire (e questo credo che mi riesca bene) e le mani per pensare (e questo mi riesce meno bene).
L.P. Il tuo oggetto preferito?
I.P. Tutto ciò che concerne la luce artificiale. Tra i pochi oggetti che ho progettato e realizzato c’è un Candelabro. Avevo anche un committente famoso. Fernando Pessoa. Non ho alcuna immagine di quel progetto, di cui realizzai anche un prototipo. Ho solo un insieme di parole che mi guidarono. Le lascio qui. Provate ad immaginarlo.
Il candelabro di Fernando Pessoa parla.
Io sono un candelabro
vivo d’aria necessaria per la fiamma
e quando spengo sottolineo la differenza:
buio da buio, luce da luce
che da sempre ritorna e recupera
tradisce e cambia.
E’ il tempo dato via, senza nulla a pretendere
quello che più illumina.
Sono diverso ogni volta
a dispetto di uguaglianze pretese:
ciò che si ripete
può essere un atto di coraggio
consumo di cera
scorrere di terra nella clessidra
tocchi del tempo che vanno via in modo uguale
intorno a nomi differenti.
Io e il mio padrone
da soli siamo una folla
in un variare d’ombre e talenti
riuniti intorno ad un tavolo di solitudini
che, prese ad una ad una
accese dalla mia fiamma
guardano e descrivono una sola figura:
una sola idea di uomo.
P.S. La storia politica statunitense ha visto più attentati a Presidenti o aspiranti Presidenti che Presidenti stessi. Pur capendo le ragioni di chi afferma che il clima politico attuale ha una sua influenza, è anche vero che gli elettori Americani mettono mano alle armi da sempre e con una certa facilità.
Le vicenda Abraham Lincoln, John Fitzgerald Kennedy e Robert Kennedy sono note anche a Massimo Giannini di Repubblica, quindi vuol dire che non serve aggiungere nulla. Prima, però, nel 1835, fu il Presidente Andrew Jackson, a salvarsi per un motivo tecnico: la pistola dell’attentatore s’inceppò. Poi toccò al repubblicano James A Garfield e William McKinley bersagli ambedue di anarchici. Theodore Roosevelt durante un comizio nel 1912 prese due pallottole nello stomaco, ma sopravvisse e la stessa cosa capitò a Franklin Roosevelt, nel 1933, poco prima del suo insediamento. Con Gerald Ford ci provarono due volte e nel 1981 anche Ronald Reagan fu gravemente ferito dai colpi sparati da uno squilibrato. Assolutamente da non dimenticare anche un fatto minore: l’attentato edilizio. Un certo Francisco Duran, crivellò di colpi la facciata della Casa Bianca con l’intenzione di colpire Bill Clinton. Come diceva Alberto Sordi….gli Americani so forti…