Matteo Frasca: “Mi ha trasmesso il suo modo di essere giudice” - QdS

Matteo Frasca: “Mi ha trasmesso il suo modo di essere giudice”

redazione

Matteo Frasca: “Mi ha trasmesso il suo modo di essere giudice”

Roberto Greco  |
sabato 29 Luglio 2023

Parla il presidente della Corte d’appello di Palermo Matteo Frasca

Matteo Frasca è presidente della Corte d’Appello di Palermo dal maggio 2017. È entrato in magistratura nel 1981. Il QdS lo ha intervistato per parlare del consigliere Rocco Chinnici, di cui è stato uditore.

Quando ha incontrato per la prima volta il Consigliere Chinnici?
“Il 15 novembre 1978, il giorno dopo la mia laurea. Era, al tempo, consigliere istruttore aggiunto. Lo incontrai perché era amico di mio padre e in quell’occasione mi diede alcune indicazioni in funzione della preparazione al concorso in magistratura. Superai gli orali il 23 febbraio 1981 e iniziai subito dopo una sorta di tirocinio volontario, come si usava al tempo, e rimasi quindi, per circa nove mesi, nell’ufficio Istruzione”.

In quel periodo Palermo è stato teatro dell’attacco dei Corleonesi alla città e allo Stato…
“Quel 1981 fu un anno cruciale. In quegli anni, tra il 1979 e il 1982, abbiamo contato oltre seicento omicidi di mafia che hanno colpito non solo appartenenti all’organizzazione mafiosa ma anche illustri esponenti delle istituzioni, penso a Boris Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, il capitano Basile, Gaetano Costa, Paolo Giaccone per arrivare a Carlo Alberto dalla Chiesa. Era un contesto sociale, politico e finanziario in cui c’era una sorta di incapacità di fronteggiare il fenomeno mafioso. Voglio solo ricordare che, appena pochi anni prima, il cardinale di Palermo aveva dichiarato che la mafia era un’invenzione dei comunisti. Era il periodo in cui i Salvo ottenevano la gestione della riscossione delle imposte in Sicilia con un aggio di gran lunga superiore delle altre regioni e, nel versante giudiziario, i processi alla mafia erano inesistenti perché venivano svolti fuori di Palermo a causa di un presunto condizionamento ambientale. Stiamo parlando di quei processi che terminavano con pochissime condanne e mai per responsabilità di Cosa nostra, la cui stessa definizione era sconosciuta. Eppure, in quegli anni, proprio a Palermo c’erano magistrati straordinari, come Gaetano Costa o Cesare Terranova che già avevano capito molto della mafia siciliana. Quello che mancava, al tempo, era il modello organizzativo. La figura del Giudice Istruttore al tempo non era considerata una figura di particolare importanza, spesso descritto come un esecutore delle iniziative della Procura della Repubblica ma proprio Rocco Chinnici ne riscopre il ruolo centrale. Non dimentichiamo che in quegli anni il Giudice Istruttore era quello che il presidente della Corte d’Appello dell’epoca definì come una figura che non scopriva nulla e che convocò Chinnici per dirgli di fermare Falcone perché stava rovinando l’economia siciliana”.

Esistevano, però, limiti legati al ruolo…
“Sì. Il Giudice Istruttore, al tempo, era un giudice monocratico per eccellenza. Chinnici, consapevole di questo limite, ebbe l’intuizione che cambiò le cose. Assegnò a sé i processi di mafia e, via via, ne assegnò alcuni, per fatti omogenei, a quel gruppo che aveva costituito, ossia Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Peppino Di Lello e poi gli altri che si aggiunsero. Questo gli permise di realizzare concretamente una circolarità autentica delle informazioni, in un contesto normativo nel quale il lavoro di gruppo non aveva appigli processuali. Dopo la sua morte, il progetto è staro portato a compimento da Antonino Caponnetto. Rocco Chinnici aveva una conoscenza della mafia straordinaria, antesignana per i tempi. Aveva capito che la mafia aveva e ha un obiettivo, la ricchezza, che prima perseguiva con il feudo poi con gli appalti e poi con il traffico di stupefacenti. Chinnici è stato il primo a cercare di scoprire l’intreccio affaristico che esisteva tra mafia e finanza, tra mafia e politica. Il salto di qualità delle intuizioni di Chinnici turba una serie di equilibri, come quando emise un mandato di cattura per Costanzo, cavaliere del lavoro catanese, e Di Fresco, politico democristiano. Aveva, inoltre, capito che il problema della mafia non poteva essere risolto solo in sede di repressione penale. Sosteneva che era indispensabile un nuovo movimento culturale e che senza una nuova coscienza noi giudici non ce l’avremmo mai fatta. È lui che, per primo, porta i concetti di legalità fuori dal Palazzo e va nelle scuole, dove parla con i ragazzi dei danni causati di droga, uno dei problemi che più lo assillava”.

Dov’era il 29 luglio 1983?
“Non ero a Palermo, ero nella mia prima sede giudiziaria in Toscana, dove facevo il pretore. Verso le otto e mezza mi telefonò un caro amico che mi disse ‘hanno ammazzato Chinnici’. Mi crollò il mondo addosso, fu un colpo mortale, come se avessero ammazzato mio padre perché lui, dal punto di vista professionale, lo era”.

Quanto è stato importante Rocco Chinnici per la sua formazione?
“Determinante. Se dovessi dire qual è stato il periodo più bello della mia vita professionale, non potrei fare altro che indicare quello, quegli anni in cui Rocco Chinnici mi ha trasmesso il suo modo di essere giudice, mi ha fatto capire che è necessario essere attento ai fenomeni guardando contemporaneamente oltre le singole manifestazioni concrete e, soprattutto, con un’indispensabile dote di umanità perché la professionalità del giudice non può essere disgiunta dall’umanità e Rocco Chinnici aveva un alta considerazione delle vicende umane degli imputati, chiunque fossero”.

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