Messina Denaro: "Mai pentito, no responsabile di stragi" - QdS

Messina Denaro, silenzi e messaggi del boss: “Mai pentito. Le stragi? Non sono responsabile”

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Messina Denaro, silenzi e messaggi del boss: “Mai pentito. Le stragi? Non sono responsabile”

Roberto Greco  |
giovedì 10 Agosto 2023

La trascrizione dell'interrogatorio di Matteo Messina Denaro poche settimane dopo la sua cattura avvenuta il 16 gennaio 2023.

Mentre arrivano notizie riguardanti la sua salute che, sembrerebbe, sta peggiorando rapidamente, è stato depositata la trascrizione dell’interrogatorio di cui lo scorso 13 febbraio, a poco meno di un mese dal suo arresto avvenuto il 16 gennaio, Matteo Messina Denaro, il boss mafioso latitante da trent’anni, è stato oggetto di un interrogatorio condotto dal Procuratore della Repubblica Maurizio de Lucia e dal Procuratore Aggiunto Paolo Guido alla presenza del Tenente Andrea Riccio e del Luogotenente Benedetto Mastrogiacomo, entrambi in servizio al R.O.S. dei Carabinieri di Palermo.

L’interrogatorio dell’ex boss

Messina Denaro era assistito dalla sua legale, l’avvocatessa Lorenza Guttadauro del Foro di Palermo che, oltre ad essere la legale da lui nominata è anche è la figlia di Filippo Guttadauro e Rosalia Messina Denaro, sorella dell’ex boss di Castelvetrano, quindi sua nipote. Nel corso dell’interrogatorio, il primo eseguito al boss rinchiuso nella Casa Circondariale “Le costarelle” di Preturo dell’Aquila, il Procuratore De Lucia l’ha sollecitato su diversi argomenti, compresi quelli riguardanti il suo operato criminale.

Ovviamente, ed è necessario precisarlo, la trascrizione ha inevitabilmente dei limiti. Non si tratta di limiti riguardanti la sua veridicità ma quelli relativi alla reale comprensione dei messaggi mafiosi che sono insiti nelle dichiarazioni di quanti, con un passato mafioso, vengono interrogati dall’autorità giudiziaria. Si tratta dei silenzi e delle relative lunghezze, della postura e dei messaggi che emergono dal linguaggio del corpo, quell’insieme di segnali non verbali che sono utilizzati per comunicare con il mondo esterno non solo mafioso, come ben spiegò il dottor Giovanni Falcone.

L’arma rinvenuta durante la perquisizione del covo

A fronte della richiesta di delucidazioni al riguardo dell’arma ritrovata a seguito della perquisizione del suo covo, Messina Denaro ha confermato che fosse di sua proprietà e che non l’avesse mai usata. Inoltre, a proposito del motivo per cui l’avesse detenuta, la risposta, nella sua ovvietà, conferma già dalle prime fasi dell’interrogatorio di come l’ex boss stesse conducendo i due magistrati sulla strada del detto e non detto, dell’ovvietà spacciata come informazione e della leggerezza dell’interrogato perché, come dichiarata da Messina Denaro, “non potete risalire a niente, perché è cosi fatto bene, la punzonatura, che non si vede niente; anche all’interno è stata fatta (…) E se lo vede, c’era pure il cane limato, non so se l’avete visto”. Si tratta di un’arma che fu portata a Messina denaro dall’estero, dal Belgio per la precisione “un 20 anni fa, 22 anni, 18 anni, non lo posso quantificare”.

Tutti i “no” di Matteo Messina Denaro

“Non sono un uomo d’onore”

Risultano altresì significative le dichiarazioni dell’ex boss quando il pm de Lucia gli chiede se si ritenesse un “uomo d’onore”. “No, io mi sento uomo d’onore, nel senso di altri… non come mafioso” ha risposto l’ex boss, aggiungendo di non essere mai stato “combinato” e di conoscere Cosa nostra solo attraverso la lettura dei giornali e di non aver mai avito a che fare con cosa nostra se non in maniera involontaria ma “dottore de Lucia, io non mi farò mai pentito”.

“Non sono responsabile di nessuna strage”

Nel corso dell’interrogatorio Messina Denaro ha inoltre dichiarato di non aver mai commesso omicidi e di non c’entrare nulla con alcuna strage e che le accuse che gli sono state mosse derivano dal fatto che “mi possono accusare qualsiasi cosa, io che ci posso fare, alla fin fine, no?” anche perché in “tutti i processi di reati non c’è mai stato riscontro oggettivo…”. L’ex boss rimarca inoltre il fatto che non sia stato lui a uccidere il piccolo Giuseppe Di Matteo. “Decise tutto lui (Brusca, ndr) per l’ira dell’ergastolo che prese, ed io mi sento appioppare un omicidio, invece secondo me mi devono appioppare il sequestro di persona; non lo faccio per una questione di 30 anni o ergastolo, per una questione di principio”.

“Bernardo Provenzano? L’ho visto solo in tv”

Mai conosciuto personalmente Bernardo Provenzano, questo ha dichiarato durante l’interrogatorio e la contezza della sua esistenza è legata esclusivamente al fatto di averlo visto alla televisione e che la corrispondenza, in cui ognuno chiedeva all’altro semplicemente dei favori, con lui era derivante dal fatto che erano entrambi accusati di essere accusati di essere appartenenti alla consorteria mafiosa, quindi per pura empatia o per difendere gli interessi di qualche suo paesano, come nel caso di Giuseppe Grigoli cui fu rubato del denaro.

Il rapporto tra Messina Denaro e Antonio Vaccarino

“Mi firmavo Alessio”

Oltre ad affermare che nei “pizzini” intercorrenti tra lui e Provenzano utilizzava lo pseudonimo Alessio per formarli, Matteo Messina Denaro conferma il rapporto epistolare tra lui e Antonio Vaccarino, l’ex sindaco di Castelvetrano di cui il Sisde si avvalse per tentare di catturare il boss. Le sue dichiarazioni lo confermano con precisione perché dice “su ‘Svetonio’ fu una cosa mia, che lo chiamai cosi, ma ‘Alessio’… potevo scrivere pure ‘Fabrizio’ indicando così lo pseudonimo utilizzato nella corrispondenza dal Vaccarino.

Inspiegabilmente né il pm de Lucia tantomeno il pm Guido hanno ritenuto di non approfondire le tematiche relative alla corrispondenza tra Vaccarino e Matteo Messina Denaro che confermava che i pizzini firmati Alessio e indirizzati a Svetonio fossero scritti da lui, smentendo decenni di fantasie giornalistiche anche se i diversi “omissis” che compaiono in calce all’argomento non lo escludono. Per contro dall’ex boss trapanese arrivano sottili allusioni ad un rapporto preferenziale, e forse confidenziale, tra il Vaccarino e il padre Francesco, come a voler indicare una “vicinanza” che era necessario attenzionare ai magistrati.

Risulta evidente, però, che a seguito dello scambio di missive il Vaccarino comunicasse alle Forze dell’Ordine quanto gli veniva raccontato dall’allora boss, come dimostrano le diverse operazioni eseguite dalla Polizia Giudiziaria.

“Mio padre era un tombarolo e io un bravo picciotto”

Anche se non usa direttamente questa definizione, l’ex boss trapanese parla dell’attività di scavo abusivo del padre, Francesco Messina Denaro, e della successiva rivendita per giustificare il possesso di denaro e, quindi un’agiatezza che non rendeva necessario il ricorso né alle estorsioni tantomeno al traffico di sostanze stupefacenti. Insomma, si definisce un “bravo picciotto”.

“Non ho sparato io a Germanà e non se lo meritava”

Messina Denaro non esplose alcuno colpo nell’attentato, che fortunatamente, non andò a buon fine, nei confronti dell’allora Commissario di Polizia di Mazara del Vallo Calogero Germanà, detto Rino, non solo “perché anche le carte dicono che guidavo la macchina…” ma anche perché “a criterio mio non se lo meritava”.

La malattia e la presa di distanze da Provenzano

“Se non era per la malattia non mi avreste catturato”

“La colonscopia l’ho fatta i] 3 novembre 2020 ed io credo che il 9 novembre sono stato già operato, in quella operazione persi 11 chili“, ha dichiarato e inoltre, con l’arroganza tipica del mafioso ha detto ai magistrati che lo stavano interrogando “Allora ascolti, non voglio essere… non voglio fare né il superuomo e nemmeno arrogante: voi mi avete preso per la malattia, senza la malattia non mi prendevate”. Sono queste le parole di Matteo Messina Denaro che, da un certo punto di vista, giustificano la sua cattura proprio perché a causa delle malattia si fosse attenuata la sua capacità di mantenere il basso profilo che, invece, aveva tenuto negli anni precedenti.

Nessun computer. Nessuno strumento tecnologico perché, ha dichiarato, “se mi metto con la modernità, vado a sbattere in un 3×2” e l’uso, negli ultimi mesi di latitanza di uno telefono cellulare si era resa necessaria “perché nel momento in cui si va in un ospedale, o anche al cinema, la prima cosa che chiedono, ‘nome, cognome, telefonino’”.

Prende distanza dal modello di latitanza di Bernardo Provenzano, perché “non posso fare alla Provenzano, dentro la casupola in campagna con la ricotta e la cicoria, con tutto il rispetto per la ricotta e la cicoria, ma io dovevo uscire, dovevo mettermi in mezzo alle persone perché più mi nascondo, più sono arrestato. Mi spiego, cioè ho piantato l’albero in mezzo alla foresta, che erano le persone. Da quel momento, io mi sono messo a fare la vita da libero”.

L’attento telespettatore

Il programma televisivo preferito era “Non è l’Arena” di Giletti e il riferimento alla morte del maresciallo Lombardo

E qui è necessario fare un inciso. Tra le tante informazioni, o meglio messaggi che Matteo Messina Denaro manda, ce n’è uno che, apparentemente, sembra non c’entrare nulla ma non abbiamo dubbio che invece sia stato colto dai magistrati che hanno condotto l’interrogatorio. Attento telespettatore di “Non è l’Arena” il programma in onda su La7 e condotto da Massimo Giletti e chiuso definitivamente qualche mese fa, l’ex boss lancia una frecciatina nei confronti del dottor de Lucia.

Dopo aver rimarcato il fatto che Giletti “l’altra settimana ha detto che io ho partecipato all’omicidio di Pino Puglisi; ieri sera ha detto a lei cosa deve fare lei (…) ha detto, Procuratore de Lucia, però con la sua saccenteria: lei deve indagare sull’omicidio, non suicidio, del Maresciallo Lombardo. Poi la telecamera si gira e dopo — qualcuno gli avrà detto qualche cosa — dopo un 30 secondi la telecamera si riprende e lui dice: “Ovviamente, Procuratore de Lucia, sa quello che deve fare”.

Anche in questo caso sarebbe importante capire perché l’ex boss, senza nessuna domanda diretta da parte dei magistrati, indichi argomenti specifici, forieri sicuramente di messaggi lanciati non solo a loro ma, più in generale, a quanti si fossero ritrovati a leggere la trascrizione del suo interrogatorio.

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