Microplastiche a tavola, così ingeriamo una “carta di credito” ogni settimana - QdS

Microplastiche a tavola, così ingeriamo una “carta di credito” ogni settimana

redazione

Microplastiche a tavola, così ingeriamo una “carta di credito” ogni settimana

Mauro Seminara  |
martedì 02 Aprile 2024

La plastica ha portato grandi benefici per la vita quotidiana, ma la dispersione dei resti nel nostro ambiente sta provocando ormai da tempo danni irreparabili

ROMA – Le microplastiche non sono una recente scoperta. Le conosciamo e le studiamo già da qualche decennio e negli ultimi quindici anni circa si sono intensificate le ricerche in buona parte del mondo. La letteratura scientifica in materia è ormai molto estesa e gli esiti delle ricerche che hanno condotto a tali pubblicazioni risultano sconfortanti. Se volessimo azzardare una metafora, è come se avessimo avvolto l’intero pianeta in vari strati di pellicola per alimenti.

Micro e nano plastiche

Questo renderebbe l’idea della loro diffusione, ma in modo parzialmente distorto perché l’immagine offerta è di plastica sulla superficie. Invece, quelle che vengono definite microplastiche sono ormai anche nano plastiche: particelle di polimeri sintetici il cui diametro è pari alla sezione di un sottilissimo capello, e si trovano ovunque, anche all’interno di organismi viventi.

Ognuno di noi ne ha in corpo

Esse sono il residuo polverizzato della plastica che in una civiltà evoluta ma incosciente viene dispersa nell’ambiente. Ne sono state trovate sul ghiacciaio dei Forni e sul ghiacciaio del Miage. Luoghi impervi della catena montuosa delle Alpi difficile da raggiungere per l’uomo, che rende l’idea agli italiani. Ma anche sulle vette di tutte le altre irraggiungibili catene montuose del pianeta, come negli abissi degli oceani, nei mari, sulle piante e negli animali come nei pesci. Particelle invisibili che si trovano anche nell’acqua potabile imbottigliata che beviamo ogni giorno.

Da quando nel 1954 il chimico italiano Giulio Natta realizzò il primo materiale sintetico registrato come Moplen e poi genericamente conosciuto come plastica, di varietà e sottoprodotti di questa sintesi ne sono state create una infinità. Da quel relativamente lontano 1954, la plastica ha apportato enormi benefici alla vita di tutti i giorni con infinite applicazioni, ma abbiamo iniziato anche a disperderne i resti ed oggi ne stiamo pagando il prezzo. Un prezzo salatissimo.

La plastica trovata anche sui ghiacciai

La plastica, di ogni genere ma in minuscole particelle, è stata trovata sui ghiacciai, nel mare, ma anche nel sangue umano e nella placenta del grembo materno che darà alla luce una nuova vita. Gli effetti delle nano particelle sintetiche sono stati anch’essi studiati fornendo ampia letteratura scientifica e le scoperte fatte dai ricercatori sono sconfortanti. “Si stima che possiamo ingerire da 0,1 a 5 grammi alla settimana di invisibili pezzetti di plastica, un contenuto quasi pari a quello di una carta di credito”, ha affermato Daniela Gaglio, responsabile scientifico dell’Infrastruttura di Metabolomica dell’Istituto di Bioimmagini e Fisiologia Molecolare (IBFM), del Consiglio nazionale delle ticerche (in basso l’intervista).
Frammenti di microplastiche sono stati trovati in pesce, carne, frutta e verdura (mele e carote le più contaminate), miele, zucchero, sale e birra. Ma il dramma è che a esserne contaminata è soprattutto l’acqua. Alcuni studi recenti condotti su quella del rubinetto, in bottiglia e di sorgente hanno dimostrato che microparticelle sono presenti in tutte le fonti analizzate (Cox et al., 2019).

Le nano particelle di plastiche anche nell’acqua che beviamo

Analisi dell’acqua di rubinetto proveniente da 159 fonti diverse hanno evidenziato che l’81% dei campioni conteneva microparticelle inferiori a 5 mm (Kosuth et al., 2018). Altri studi condotti su 259 bottiglie d’acqua di 11 marche diverse e 27 lotti diversi hanno mostrato che il 93% dei campioni conteneva microparticelle di plastica (Mason et al., 2018). Un altro studio ha ritrovato elevati livelli di microplastiche nella minerale imbottigliata in 22 diversi materiali plastici multiuso (rispetto ai contenitori monouso in plastica o cartone), nonché nelle bottiglie di vetro (Schymanski et al., 2018).

Le microplastiche, come vedremo grazie alle ricercatrici intervistate, penetrano la membrana delle cellule e una volta assunte ne alterano il metabolismo. Una alterazione metabolica cellulare, per comprendere il concetto, è ad esempio quella tumorale. Quindi le microplastiche riescono ad alterare il Dna, il metabolismo cellulare, l’indirizzo delle cellule e, nel caso di un nascituro, causano anche malformazioni.

Tra i sottoprodotti della plastica, uno molto diffuso, che conosciamo tutti e che troviamo in ogni sorta di imballaggio, è il polistirene. Estremamente diffuso nella sua versione polistirolo espanso, lo si usa per imballare elettrodomestici, ma anche per contenere sotto forma di vaschetta una o due mele o altri prodotti alimentari in monoporzioni.

Leggero, facilmente deperibile, è stato oggetto di molti test di laboratorio che hanno confermato l’interazione con gli organismi viventi. Il polistirene raggiunge molto più rapidamente lo stato di micro a nano plastica, rispetto alle cosiddette plastiche dure destinate ad usi in cui è fondamentale la resistenza chimica e meccanica.

Ma in terra come sulle spiagge ed in fondo al mare, è possibile trovare minuscoli residui di materiale plastico databili a qualche decennio. La loro essiccazione però li rende sempre più soggetti all’erosione e quindi alla dispersione di particelle infinitesimali nell’ambiente. Le microplastiche è quindi ormai certificato dalle innumerevoli ricerche scientifiche che, oltre ad ingerirle con acqua e cibi, le respiriamo.

Liberarcene è allo stato attuale letteralmente impossibile. Non siamo in grado di pulire il pianeta da un nemico invisibile di natura sintetica. Resta, così come auspicato dai ricercatori con cui il Quotidiano di Sicilia si è confrontato, la speranza che si pongano immediatamente in essere politiche comuni e globali per porre fine all’inquinamento da microplastiche cui stiamo esponendo l’intero ecosistema.

Daniela Gaglio, responsabile scientifico dell’Infrastruttura di metabolimica del Cnr-Ibfm

“Ingestione la principale causa di assunzione, l’esposizione è un fattore di rischio tumorale”

Daniela Gaglio, responsabile scientifico dell’Infrastruttura di metabolimica del Cnr-Ibfm

PALERMO – Per approfondire ulteriormente gli effetti delle microplastiche negli organismi viventi abbiamo contattato la dottoressa Daniela Gaglio del Cnr, il Consiglio nazionale delle ricerche. Siciliana, di Agrigento, specializzata in ricerca oncologica, la dottoressa Gaglio ha iniziato il progetto di ricerca dopo un viaggio a Lampedusa. L’isola pelagica, ambiente a basso impatto inquinante, è stato lo spunto per avviare un lavoro che ha condotto fino a una pubblicazione, nel 2022, dai tratti inquietanti. La dottoressa Gaglio è responsabile scientifico di struttura all’Istituto di bioimmagini e fisiologia molecolare del Cnr di Milano, diretto dal dottor Danilo Porro. L’abbiamo contattata per comprendere quanto le microplastiche costituiscano una minaccia per gli organismi viventi e quindi anche per il genere umano.

Dottoressa Gaglio, le microplastiche sono già nel nostro organismo?
“Si, ormai sono tanti i dati in letteratura che dicono che le microplastice e le nanoplastiche sono dentro di noi. Vari lavori hanno detto che sono stati trovati in placenta, e ormai sono ben due i lavori che ne hanno dimostrato evidenze. Poi comunque sono state trovate nel sangue, nell’intestino, addirittura nel cuore. C’é un lavoro recentissimo che è stato pubblicato e che è stato fatto su pazienti che hanno avuto infarto del miocardio, su pazienti in vita ma anche su autopsia di persone decedute per infarto, e le hanno trovate nelle placche arteriose. Quindi si. Ormai questo è, ahimè, abbastanza preoccupante, ma le micro e nano plastiche sono dentro di noi”.

Come reagisce il nostro organismo a questa presenza?
“Assodato che le plastiche sono dentro di noi, noi non sappiamo esattamente cosa facciano, quindi abbiamo iniziato questo lavoro – pubblicato nel 2022 – con cui abbiamo fatto questo tentativo per vedere, il polistirene nello specifico, per cui una sottoclasse appartenente a questo mare magnum che sono le plastiche, che effetto ha sulle cellule dell’intestino e se vengono assorbite. Quindi, una volta assorbite, che tipo di effetto determinano. Quello che posso dire, in sintesi, è che c’é sicuramente un riarrangiamento metabolico. Cioè una alterazione. Sia l’esposizione acuta, che ancor di più con l’esposizione cronica, quindi per tempi lunghi, determina un’alterazione del metabolismo che è molto simile a quello che accade nelle cellule tumorali. Abbiamo fatto questo confronto trattando le cellule dell’intestino con un famoso agente cancerogeno che si chiama azossimetano, che viene utilizzato normalmente per indurre il tumore all’intestino nei topi, ed abbiamo visto che il comportamento è simile. Cioè, l’alterazione che si viene a creare all’interno del metabolismo è simile. Così come quello che vediamo nelle cellule tumorali vere e proprie. Perché nel lavoro noi mettiamo a confronto le micro e le nano plastiche di polistirene e l’azossimetano e delle cellule già in stadio tumorale e vediamo che il comportamento è simile. Quindi, il succo finale è che le plastiche, il polistirene in questo caso specifico, a lunghe esposizioni si comporta come fattore di rischio tumorale. Un po’ come è stato classificato il fumo, l’alcol, e volendo anche lo stress”.

Quali sono i canali primari di assunzione di microplastiche nell’organismo?
“Sicuramente l’ingestione. Quella principale l’ingestione, anche l’inalazione, ma prevalentemente l’ingestione. Perché comunque ormai dati di letteratura ce ne sono tantissimi, in cui risulta che le particelle di plastiche non sono soltanto dentro di noi ma sono nell’acqua e nel cibo. Sono state trovate ovunque. Infatti, noi ci siamo preoccupati di vedere se venivano assorbite dall’intestino perché per primo ne viene a contatto ed attraverso il quale noi assumiamo le sostanze nutritive del cibo che ingeriamo. Volevamo capire se ci fosse la penetrazione all’interno della membrana della cellula e se quindi le particelle venivano inserite all’interno della cellula intestinale”.

Quindi anche attraverso l’acqua che al momento noi definiamo potabile, ma con il rischio di dover rivalutare questa definizione?
“Si, in parte si perché in realtà ci sono particelle di micro e nano plastica nell’acqua in generale. Ci sono davvero tanti dati in letteratura con analisi fatte sull’acqua di rubinetto, acqua imbottigliata – se non erro su 150 brand differenti – con l’81% dei brand analizzati contenente particelle di micro e nano plastica. Quindi si, anche l’acqua potabile è in parte contaminata”.

Se noi l’ingeriamo anche mediante l’acqua potabile, i capi di bestiame ne assumono più di noi dall’acqua che bevono, e poi noi li mangiamo assumendo quantità di microplastiche ancora maggiori; è corretto?
“Io non voglio demonizzare la carne né il pesce, perché in realtà ne sono state trovate ovunque: nel sale, nel miele, nella birra, nella frutta; cioè, l’analisi di letteratura è veramente inquietante. Quindi non voglio demonizzare né la plastica né il cibo che ingeriamo; la plastica è veramente una grandiosa invenzione, della quale noi non possiamo più fare a meno, perché ci sono ad esempio tutta una serie di presidi chirurgici come i cateteri, le siringhe e componenti sanitari per cui è indispensabile che ci sia plastica. Quindi non è che si vuole demonizzare la plastica, ma, essendo che ormai si trova ovunque e ne paghiamo il cattivo uso, o l’abuso nell’utilizzo, ci vogliono delle politiche che trasformino la plastica in una risorsa e non un prodotto di scarto monouso. Noi continuiamo a trovare nei nostri supermercati i nostri ortaggi imballati nella plastica. Messi nelle vaschette di polistirene e ulteriormente imballati. Perché?”.

Se siamo arrivati alle nanoplastiche nell’ambiente vuol dire che sarà una trentina di anni che disperdiamo plastica?
“Di più, dall’inizio. La plastica è un polimero sintetico, non è un polimero naturale. Noi abbiamo micro e nano plastiche da quando è stata inventata, sotto forma diversa ma da quando è stata inventata. Noi non possiamo tornare indietro, quello che possiamo fare è provare a sensibilizzare e correggere il tiro”.

Valentina Iannilli, ricercatrice del Laboratorio di biodiversità e servizi ecosistemici dell’Enea

Valentina Iannilli, ricercatrice del Laboratorio di biodiversità e servizi ecosistemici dell’Enea

ROMA – Valentina Iannilli è una biologa che conduce ricerche con l’Enea, l’agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile. Con l’Enea svolge ricerche a Roma, nel laboratorio di biodiversità e servizi ecosistemici del dipartimento di Sostenibilità, circolarità e adattamento al cambiamento climatico dei sistemi produttivi e territoriali. Nello specifico, ha condotto ricerche sulle microplastiche e sull’interazione tra queste particelle e gli organismi viventi. Il Quotidiano di Sicilia le ha rivolto alcune domande mediante le quali consentire ai propri lettori di beneficiare della sua competenza.

Sono state trovate microplastiche sui ghiacciai dei Forni e del Miage, sulle Alpi; come ci sono arrivate?
“Per microplastiche intendiamo tutta una serie di frammenti, comunque particelle di plastica al di sotto dei cinque millimetri. Chiaramente se queste particelle sono vicine ai cinque millimetri non viaggiano in atmosfera, ma se sono più piccole, quindi se arriviamo intorno alla dimensione di un capello, diciamo cinquanta o trenta micron, sono facilmente trasportabili dalle correnti d’aria. Per cui, il percorso principale che si stima possa essere quello delle microplastiche in questi ecosistemi così remoti è quello del trasporto atmosferico, quindi quello della riposizione, delle piogge e della neve. Possono essere trasferite dai movimenti dell’aria, e quindi arrivare un po’ dovunque. Sono state trovate sulle Alpi ma sono state trovate anche sull’Everest, sulle Ande, in Tibet, insomma, hanno raggiunto luoghi molto remoti”.

Stiamo cospargendo il pianeta, possiamo dire addio alle aree incontaminate?
“Al momento non posso dire di conoscere esattamente tutta la letteratura esistente, però si: dove si cercano le si trovano. Anche nella nostra esperienza; noi abbiamo iniziato qualche anno fa a lavorare in artico, alle isole Svalbard (Norvegia, ndr), ed il lavoro è iniziato con una nostra curiosità: andare a vedere se in alcuni gamberetti marini ci fosse della microplastica. Abbiamo fatto una analisi del contenuto dell’apparato digerente, per vedere se avessero per caso ingerito queste particelle polimeriche, e così è stato. Devo dire che nella mia se pur piccola esperienza, abbiamo provato a cercarle e le abbiamo trovate. Soprattutto nelle analisi delle interazioni tra le microplastiche e gli organismi. Diverse volte abbiamo sperimentato questo: abbiamo preso animali in natura e siamo andati a vedere se avessero ingerito microplastiche e purtroppo le abbiamo sempre trovate”.

Gli effetti genotossici associati con l’ingestione di microplastiche da parte dei gammàridi sono motivo di preoccupazione per l’ecosistema acquatico e la rete alimentare che arriva alla dieta umana?
“Si, entrano nella catena alimentare. Di questi si nutrono i pesci ma anche le trote in acqua dolce. La specie che abbiamo analizzato noi è una delle preferite dalle trote. Nei contenuti stomacali delle trote se ne trovano quantitativi molto elevati. Quindi pesci, anfibi, uccelli, entrano nella catena alimentare e da quel momento in poi il destino è difficile da tracciare. Però arrivano senza dubbio ai livelli più alti della catena alimentare”.

Mi parla della ricerca sui danni a livello di materiale genetico?
“Noi abbiamo fatto delle esposizioni in laboratorio utilizzando frammenti di polietilene – di dimensioni fra i trenta e i cinquanta micron – su questi gamberetti e abbiamo valutato con un test fatto dopo ventiquattro ore il livello di frammentazione del Dna. Questo test va a vedere proprio le rotture della singolarità del Dna dopo l’esposizione, e abbiamo trovato un importante danno al Dna rispetto agli organismi di controllo, cioè a quelli che non venivano esposti. Questo non vuol dire che l’animale morirà per questo, perché esistono dei meccanismi di riparazione del danno al Dna. Meccanismi che però funzionano in condizioni di danno ‘normale’, cioè hanno una efficienza fino a quando il danno al Dna arriva fino ad un certo livello. Se il danno supera questo livello è più difficile che questi sistemi possano funzionare, e quindi è più facile che si incorra nell’induzione di mutazioni; così come con altri contaminanti, o la radiazione solare e tutto quello che provoca danno al Dna, e questo è chiaramente un pericolo”.

Possiamo supporre una analoga dinamica per l’uomo?
“Certamente. Possiamo supporre una dinamica analoga sull’uomo. Esistono già degli studi fatti sulle cellule umane. Al di là di quello che viene trovato nell’uomo, nei tessuti, negli organi, ormai abbiamo visto nella placenta, nel sangue, addirittura nei trombi sono stati ritrovati dei frammenti di plastiche, ma proprio a livello di interazione biologica le cellule animali funzionano più o meno tutte nella stessa maniera e quindi l’interazione potrebbe essere la stessa”.

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