La Corte dei Conti: indispensabile arrivare a una svolta sia sul fronte economico che in quello sociale
ROMA – “Le esigenze di sviluppo economico e di garanzia dei diritti dei cittadini su tutto il territorio richiedono il bilanciamento con una solida e realistica regolazione dei canali di spesa e di entrata”: il presidente della Magistratura contabile, Guido Carlino, nella sua introduzione al Giudizio di parificazione del Rendiconto generale dello Stato per l’esercizio finanziario 2023, svoltosi ieri mattina nell’Aula delle Sezioni riunite della sede centrale della Corte dei conti, non lascia spazio a fraintendimenti.
In vista della traslazione nell’ordinamento nazionale del nuovo quadro di regole comunitarie, che hanno l’obiettivo di coniugare la sostenibilità della finanza pubblica con il supporto alla crescita, la priorità resta sempre la stessa ed è lo stesso Carlino a metterla nero su bianco: “Rendere compatibili la migliore qualità nella composizione delle entrate e delle spese e il graduale rientro del disavanzo, nell’ambito di un piano pluriennale che incoraggi il costante e duraturo aggiustamento dei conti pubblici e ponga il rapporto debito-Pil in una direzione stabilmente in calo, coniugando accortezza fiscale e ritmi di miglioramento economico e sociale più sostenuti”.
Nuove regole del Patto di stabilità e di crescita dell’Ue
Nella Penisola, infatti, anche a seguito del varo delle “è opportuna – ha sottolineato Carlino – un’attenta valutazione sulla revisione della struttura del bilancio dello Stato, ove assumono centralità i profili della trasparenza e della leggibilità, che rendono chiara la correlazione fra risorse finanziarie e finalità della spesa”.
Quello del riequilibrio della finanza pubblica nel contesto della nuova governance europea è un percorso che il presidente di coordinamento delle Sezioni Riunite in sede di controllo, Enrico Flaccadoro, nel suo intervento, definisce “impegnativo”, specie considerando il fatto che ci troviamo di fronte a una prolungata stagione di politiche di bilancio espansive.
“Lo scenario tendenziale prefigurato nel Documento di economia e finanza (Def) – ha spiegato infatti Flaccadoro – presenta per l’anno in corso e per tutto l’orizzonte di previsione un’evoluzione dei ritmi produttivi di intensità simile a quella del 2023: una crescita intorno all’1 per cento annuo, accompagnata da un ulteriore miglioramento del mercato del lavoro (il tasso di disoccupazione scende dal 7,7 al 7,1 per cento nel 2024 per ridursi ancora di 3 decimi di punto nel 2027) e da un aumento contenuto dei prezzi (l’aumento dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo, previsto all’1,2 per cento nell’esercizio in corso, si posizionerebbe intorno al 2 per cento nel successivo triennio)”.
Dati, questi, sostanzialmente in linea con le proiezioni europee: “Nelle Spring forecast di maggio la Commissione europea – ha confermato Flaccadoro – stima la crescita del Pil allo 0,9 per cento per l’anno in corso e all’1,1 per il prossimo (+1 e +1,2 per cento rispettivamente nel Def), con un’inflazione che scende più lentamente nel 2024 (+1,6 per cento) e si posiziona all’1,9 per cento nel 2025 (+1,8 per cento secondo il Def). L’Ocse, a fronte di una crescita del Pil più contenuta per l’anno in corso (+0,7 per cento), stima un +1,2 per cento nel 2025 in un contesto di tendenziale allineamento dell’inflazione armonizzata intorno all’obiettivo della Banca centrale europea del 2 per cento”.
Uno dei principali problemi strutturali del nostro sistema economico resta l’indebitamento: “Il 2023 si è chiuso con un indebitamento netto pari al 7,4 per cento del Pil (più elevato quindi di due decimi di punto rispetto a quanto indicato nel Def” ma “1,2 punti in meno rispetto all’esercizio precedente, grazie alla riduzione del deficit primario (da -4,3 per cento nel 2022 a -3,6 nel 2023) accompagnata da una minore spesa per interessi”. Quel che è certo è che si dovrà necessariamente lavorare a “un contenimento del tasso di crescita della spesa per rispettare la traiettoria che sarà indicata dal Piano e che rappresenta lo strumento cardine per il rientro del debito pubblico”.
“Nel 2023 – ha proseguito Flaccadoro – il rapporto debito/Pil, grazie all’operare di effetti contabili connessi con l’aggiustamento stock-flussi e alla rivalutazione del Pil monetario da parte dell’Istat per il 2022, si è ridotto di 3,2 punti (al 137,3 per cento)”. Il risultato consolida la discesa dal picco pandemico: nel 2020 si toccò quota 155 per cento. Il calo è attribuibile sì alle “buone capacità di recupero della crescita economica reale” ma anche e soprattutto all’apporto dell’inflazione. Sulla base del quadro macroeconomico e finanziario proposto dal Def, “la fase di riduzione si arresterebbe nell’anno in corso (dal 137,3 al 138,9 per cento); l’indice si riporterebbe poi su un livello prossimo al 140 per cento nel 2026 per ridursi lievemente nel 2027 (139,6 per cento)”.
“Nel prossimo futuro – ha aggiunto – rendere compatibili necessità di spesa e rientro del disavanzo richiederà scelte più ambiziose. Importante sarà procedere con determinazione nella valutazione di efficacia delle politiche esistenti con l’obiettivo di definire riforme strutturali e di abbandonare interventi con limitati impatti economici e sociali”.
Un percorso, come ha sottolineato ancora Flaccadoro, su cui il ministero dell’Economia si sta muovendo con decisione, ma che deve diventare “una priorità della politica economica già a partire dalle prossime manovre”. Anche perché sulla testa della Penisola pende una pesante spada di Damocle: la settimana scorsa la Commissione europea ha formulato proposte al Consiglio per l’apertura nei confronti del nostro Paese, e di altri sei Stati membri dell’Unione, di una procedura per disavanzo eccessivo basata sul deficit ed ha comunicato – anche se non reso pubblico – le traiettorie di riferimento per la spesa netta di cui i Paesi interessati dovranno tenere conto nella predisposizione dei propri Piani nazionali strutturali di bilancio a medio termine da presentare entro il prossimo 20 settembre.
Settore pubblico, allarme dipendenti
A influire sullo stato di salute della nostra economia è anche la questione – non di poco conto – relativa al cosiddetto “capitale umano” che il presidente di coordinamento delle Sezioni Riunite in sede di controllo, Carlo Chiappinelli, ha portato a galla nella sua relazione: “La forza lavoro del settore pubblico è tra le più anziane dell’Ue, in parte a causa del blocco delle assunzioni durato un decennio, che si accompagna ad una bassa percentuale di lavoratori del settore pubblico con istruzione superiore”.
Il personale pubblico, in sostanza, è diversamente giovane e possiede un basso livello di istruzione. Attenzione: lungi da noi affermare che questa fetta di personale sia incapace, ma è chiaro che le capacità acquisite si basano esclusivamente sulla sola esperienza sul campo e non sono supportate da quel grado di conoscenza che solo gli studi consentono di avere.
Chiappinelli ha confermato che alcuni dei nodi ancora da rimuovere “attengono principalmente ai profili qualitativi del capitale umano presente nelle pubbliche amministrazioni, accompagnati anche dalla opportunità di rivedere i modelli organizzativi di alcuni settori nei quali il processo di digitalizzazione dei servizi ha necessità di essere implementato. Si avverte, infatti, l’esigenza che l’intensa attività di reclutamento di nuovo personale non sia disgiunta da un attento esame dei modelli organizzativi, attesa la pervasività della digitalizzazione dei processi con effetti sulla composizione della forza lavoro delle diverse amministrazioni, anche con riguardo alle reciproche interazioni sul piano delle funzioni affidate”.
Evasione ancora troppo diffusa
Nonostante i risultati conseguiti dall’Italia in termini di aumento delle entrate fiscali lo scorso anno – che nel complesso la Corte dei conti valuta come positivi e sui quali ci limitiamo a segnalarvi un aspetto interessante, quello ciò riguardante la componente principale dell’aggregato continua ad essere costituita dalle entrate tributarie, il cui peso sul totale è superiore all’80 per cento – resta consistente, come ha messo in evidenza il presidente di coordinamento delle Sezioni Riunite in sede di controllo, Enrico Flaccadoro “il numero dei contribuenti che non versano quote rilevanti delle imposte dovute e dichiarate: a fronte degli importi richiesti a seguito di comunicazioni di irregolarità, solo poco più del 20 per cento viene corrisposto (la restante parte è iscritta a ruolo)”. E su questo l’incidenza dell’Iva è “elevata: costituisce circa il 60 per cento del non versato”.
“Lo stesso – ha aggiunto – accade per i controlli documentali: delle somme dovute sono versate in media meno del 30 per cento. Un fenomeno che risulta ancora più grave quando accompagna misure come le rottamazioni delle cartelle esattoriali con consistenti vantaggi per i singoli contribuenti: è il caso della rottamazione quater che, pur presentando un risultato superiore alle attese, a fronte di 6,8 miliardi riscossi, registra omessi versamenti di rate per 5,4 miliardi”.
Guardando poi all’azione dell’amministrazione tributaria per il recupero del gettito, “se crescente rilievo assume l’invio delle cosiddette lettere di compliance, continuano a essere inferiori ai risultati pre pandemia (e a ridursi ancora nel 2023) gli accertamenti dell’Agenzia delle entrate: oltre 175 mila contro i circa 190 mila del 2022 e i 267 mila del 2019 (quelli ordinari). Un calo che è strettamente correlabile, da un lato, alla riduzione di personale verificatasi nel tempo, e a cui nel 2023 si è cominciato a far fronte, e dall’altro, al permanere della difficoltà ad un pieno e completo utilizzo delle banche dati tributarie e, in particolare, di quelle relative alle fatture elettroniche e ai rapporti finanziari”.
Secondo Flaccadoro “una moderna strategia di contenimento dell’evasione, che dovrebbe comunque essere affiancato da una maggiore frequenza dei controlli, non limitati alle posizioni rilevanti ma caratterizzati da un’azione più estesa”, è necessaria “per contrastare l’evasione diffusa che tuttora caratterizza la situazione italiana”.
Le ricadute negative del Superbonus fra truffe e indebite percezioni
Sull’effetto boomerang prodotto dal Superbonus sulle casse dello Stato il procuratore generale presso la Corte dei Conti, Pio Silvestri, non ha fatto sconti nella sua requisitoria. Negli ultimi anni le diverse agevolazioni all’edilizia in Italia “hanno effettivamente contribuito al rilancio economico e al miglioramento dello stato degli edifici, ma non sono mancate le truffe, le indebite percezioni e, in particolare, per il cosiddetto Superbonus, che sconta agevolazioni fino al 110%, ricadute assai negative sul bilancio dello Stato”.
Quest’ultimo – è bene ricordare – era stato introdotto con il Decreto Rilancio (Decreto-legge n. 34 del 2020), a fronte di specifici interventi in ambito di efficienza energetica, di interventi antisismici, di installazione di impianti fotovoltaici, nonché delle infrastrutture per la ricarica di veicoli elettrici negli edifici. “Progressivamente – ha rilevato Silvestri – la misura, originariamente prevista per gli interventi realizzati fino al 31 dicembre 2021, è stata estesa con effetti vieppiù incontrollati sul bilancio dello Stato. Solo di recente sono state introdotte misure più stringenti per mitigare gli effetti negativi sulle finanze pubbliche, pur con la necessità di contemperare le aspettative di quanti si sono venuti a trovare in situazioni giuridiche governate da norme diverse, non avendo neppure completato i lavori iniziati”.
Il procuratore generale ha ribadito nel suo intervento quanto riportato nella memoria dell’Ufficio parlamentare di Bilancio del 18 aprile 2024 (sulla conversione del Dl 29 marzo 2024, n. 39, in materia di agevolazioni fiscali edilizia), contenente una approfondita analisi sulle finalità del decreto e sugli effetti finanziari dei bonus edilizi. In tale documento viene evidenziato che “il Superbonus (Super ecobonus e Super sismabonus) – insieme al Bonus facciate in vigore dal 2020 al 2022 – e, in misura minore, gli incentivi alle imprese Transizione 4.0 hanno inciso marcatamente sui conti pubblici degli ultimi anni e lasciano una pesante eredità sul futuro”.
“Si può ben dire – ha aggiunto Silvestri – che gli effetti negativi di finanza pubblica di tali misure, che hanno assunto una dimensione macroscopica, sono ascrivibili all’ampliamento degli obiettivi dell’agevolazione e alle ripetute estensioni temporali della misura, che hanno, appunto, generato un aumento della spesa ben oltre le aspettative iniziali; ovviamente anche la diffusione di comportamenti fraudolenti – aggiunge Silvestri – ha contribuito ad ampliare gli effetti finanziari della misura”.
Non è un caso che, tra le motivazioni della procedura di infrazione per eccesso di deficit, appena aperta dalla Commissione Ue sull’Italia “un peso rilevante lo abbia avuto proprio lo sbilancio degli oneri connessi al Superbonus”.