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Ricerca: Archimede ha fatto le valigie. La Sicilia non è terreno fertile per gli scienziati

Liliana Rosano

Ricerca: Archimede ha fatto le valigie. La Sicilia non è terreno fertile per gli scienziati

mercoledì 17 Aprile 2019

L’università di Padova, basandosi su quota base premiale e perequativa, ha ottenuto 304 milioni di euro nel 2018, ovvero un’assegnazione superiore di circa 4,88 milioni di euro rispetto all’anno precedente, pari a circa l’1,87%. Un risultato possibile per la performance della quota premiale e per la buona struttura del costo standard.

In generale la Sicilia ha speso nel 2015 (ultimi dati Anvur 2018) l’1% del Pil in ricerca e sviluppo contro il 2,15 del Piemonte, in testa alla classifica.

In valore assoluto, e relativamente ai fondi europei per la ricerca e innovazione, la Lombardia è la regione più premiata: 14 università, 200,2 milioni di euro ricevuti per quattro anni (il 27 per cento del totale). Poi il Lazio: 10 università, 84 milioni. Ma è il Veneto a ospitare gli atenei più efficaci: le quattro accademie che hanno avuto accesso ai fondi (Padova, Verona, Ca’ Foscari e Iuav di Venezia) hanno ricevuto un contributo medio di 19,7 milioni di euro a testa.

Ma veniamo alle siciliane. Partiamo da Catania, che nel 2018 chiude con un +263% dei fondi nazionali e internazionali destinati alla ricerca. Significativo è l’aumento nel 2018 dei finanziamenti nazionali che sono passati da 2,2 milioni a 6,7 mentre i finanziamenti internazionali sono arrivati lo scorso anno a 3,6 milioni partendo da una base di appena mezzo milione dell’anno precedente.

“Relativamente al forte incremento registrato nel 2018 nelle risorse ottenute attraverso la partecipazione a bandi competitivi nazionali e internazionali, si ritiene che tale dato è da collegare anche al fatto che la presenza dei ricercatori di UniCt è stata non solo in qualità di partner ma in qualità di coordinatore facendo, pertanto, incrementare le quota di finanziamento ricevuta – commenta Alessandra Gentile, delegata del rettore alla Ricerca d’Ateneo a Catania. – Anche questo è un indice importante di performance e di crescita dell’Ateneo di Catania. Registriamo altresì un trend di partecipazione ai bandi in crescita anche con riferimento al fatto che vinciamo progetti non solo come partner ma anche come coordinatori, testimoniando che accanto alla buona idea progettuale si affianca una notevole capacità di concezione e gestione dell’intera proposta progettuale. E questo è per noi motivo di soddisfazione nella prospettiva di poter far crescere una cultura della progettazione nei diversi ambiti”, conclude.

A Palermo c’è un aumento dei fondi di Ateneo, segno dell’investimento dell’università palermitana, che passano da 9 milioni a 12 milioni di euro mentre nel 2018 calano sia i finanziamenti nazionali che quelli internazionali. I primi, passano da 6,8 milioni a 5,4 mentre i secondi da 3,2 milioni a 2,9. Il totale dei finanziamenti nazionali e internazionali 2018 rispetto all’anno precedente è di 20,7 milioni di euro contro i 19.

“I dati esposti dimostrano lo sforzo espresso dell’Università di Palermo negli ultimi due anni in termini di risorse proprie per sostenere le attività di ricerca in Ateneo, commenta il Rettore dell’Università di Palermo, il professore Fabrizio Micari. “In un momento in cui le risorse nazionali, e soprattutto regionali, della programmazione 2014-20 stentano ancora ad essere distribuite, lo sforzo effettuato risulta particolarmente strategico e rilevante. I dati mostrano altresì una consolidata capacità di drenare fondi internazionali – prevalentemente europei – che speriamo ulteriormente di potenziare nel prossimo futuro”, conclude il Rettore Micari.

Chiude l’Università di Messina, con un significativo aumento dei finanziamenti nazionali e internazionali per una percentuale del +2.141%. Nel dettaglio, l’ateneo peloritano passa da 344 mila a 11 milioni di finanziamenti nazionali per la ricerca e da 426 mila a 4,7 milioni nell’ambito dei finanziamenti internazionali.

Il 2018 è stato un anno di crescita per la ricerca italiana e soprattutto per quella del Sud Italia. Dai contributi per il potenziamento delle infrastrutture all’attrazione di ricercatori, fino al Fondo di Fondi gestito insieme alla Bei, il Miur ha sbloccato quasi 700 milioni di euro. Le risorse provengono dal Pon Ricerca e Innovazione, lo strumento cofinanziato dai fondi europei che dispone in tutto di 1,2 miliardi per il periodo 2014-2020 per promuovere attività di R&S&I, con particolare attenzione al Mezzogiorno.

Con un primo bando da oltre 326 milioni di euro il Miur sostiene il potenziamento delle infrastrutture di ricerca nelle regioni in transizione (Abruzzo, Molise e Sardegna) e in ritardo di sviluppo (Basilicata, Campania, Calabria, Puglia, Sicilia) collegate a università ed enti pubblici di ricerca.

110 milioni di euro è invece la dotazione del secondo bando Miur, che finanzia le spese per l’assunzione di ricercatori da indirizzare alla mobilità internazionale e per l’attrazione nelle università del Mezzogiorno di ricercatori impegnati in atenei/enti di ricerca/imprese in altre regioni o all’estero.


Alfio Giarlotta, docente di Matematica generale presso il Dipartimento di Economia e Impresa UniCT e visiting professor alla York University di Toronto
La differenza con gli Usa? Ricercatori reclutati sulla base
di curricula e pubblicazioni e remunerati in seguito ai risultati

Alfio Giarlotta è docente di Matematica generale presso il Dipartimento di Economia e Impresa dell’Università degli Studi di Catania.
Ha conseguito un Master e un PhD in Matematica negli Stati Uniti, all’University of Illinois Urbana-Champaign, e da quindici anni è sistematicamente visiting professor alla York University di Toronto.

Professore Giarlotta, quali sono le differenze sostanziali tra noi e gli Stati Uniti quando parliamo di didattica e ricerca?
“A livello di didattica parliamo di due sistemi diversi che sono disciplinati da regole e metodologie differenti. Negli Stati Uniti, ad esempio, gli studenti dei corsi di laurea “undergraduate” (più o meno corrispondenti alle nostre lauree triennali) sono tenuti a sostenere gli esami delle varie discipline in un’unica settimana. In caso di fallimento, si devono iscrivere e pagare nuovamente. Questo implica una pressione negli studenti al successo nelle prove e genera una maggiore fluidità nel sistema. Nelle nostre università, invece, gli esami si possono ripetere diverse volte se si fallisce ma questo ingolfa il lavoro dei docenti e non motiva adeguatamente gli studenti.
Quando parliamo di ricerca il discorso è ampio. Partiamo dal fatto che negli Stati Uniti i ricercatori vengono reclutati direttamente dai dipartimenti e remunerati sulla base dei loro risultati. Se non produci vai a casa -“Publish or Perish”, si dice – è la regola nelle università e centri di ricerca americane.
In Italia, invece, la retribuzione avviene in base al contratto nazionale a prescindere dai risultati del docente e ricercatore. La bravura di questi ultimi e la loro produttività conta certamente nella fase di erogazione dei finanziamenti del dipartimento.
Poi c’è il discorso dei finanziamenti pubblici italiani vs quelli privati americani, questi ultimi più mirati e sostanzialmente più incisivi”.

Ma il vero gap nella ricerca tra noi e gli Stati Uniti su quali parametri si basa?
“Indubbiamente sulla disponibilità e quantità dei fondi, il che si riflette inesorabilmente sui risultati.
Voglio però difendere una caratteristica importante della ricerca italiana: la qualità della ricerca di base.
Oggi però osservo, con mio grande rammarico, una tendenza a sminuire l’importanza della ricerca di base in aree come la filosofia, le discipline umanistiche, la matematica, a vantaggio quasi esclusivo della ricerca applicata.
Ricordiamoci che la forza delle nostre università, quello che ci differenzia come unici rispetto al modello americano, è l’approccio umanista, filosofico e prettamente teorico. Noi non dobbiamo imitare in toto gli Stati Uniti, ma prenderne gli aspetti positivi che si adattano ai nostri modelli, mai dimenticandoci delle differenze culturali, storiche, financo concettuali dei nostri Paesi”.

Anche il fattore meritocrazia contribuisce ad allargare il gap?
“Come dicevo prima, negli Stati Uniti, i ricercatori vengono assunti direttamente dai dipartimenti sulla base dei loro curricula e delle pubblicazioni. Più hai pubblicato, più hai possibilità di essere assunto.
Il rapporto professionale si instaura direttamente ed esclusivamente tra ricercatore e dipartimento, ma quest’ultimo ha spesso la facoltà di porre fine al rapporto professionale in determinate circostanze, il che invoglia – taluni direbbero costringe – i docenti a lavorare con serietà e continuità.
Un’altra differenza sta nella difficoltà a fare sistema delle università italiane, nel vedere la ricerca in maniera organica e compatta lasciando (purtroppo) prevalere un modello individualista”.

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