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Siciliani sopraffatti

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Siciliani sopraffatti

Giovanni Pizzo  |
martedì 07 Marzo 2023

Siamo isolani insoddisfatti di come veniamo trattati dai nostri governanti locali e succubi di Roma. Il commento di Giovanni Pizzo.

“Noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, e quanto la Regina d’Inghilterra; eppure da duemila e cinquecento anni siamo colonia”.

Potrebbe essere il “messaggio politico” di Matteo Messina Denaro, ma sono invece le parole del Principe di Salina, Don Fabrizio, che parla a Chevalley nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Questo per evidenziare che i pulpiti fanno la differenza. Persona perbene Tomasi di Lampedusa, non certamente Matteo Messina Denaro. Ma l’idea di Sicilia sopraffatta è la stessa. Hanno ragione tutte e due? Hanno torto entrambi? I siciliani la pensano come loro?

Se facessimo un sondaggio su quanto prima i piemontesi e poi i romani, ci hanno fatto sentire sudditi di serie B, molto siciliani sposerebbero le teorie di Messina Denaro. Siamo isolani insoddisfatti di come veniamo trattati dai nostri governanti locali spesso, se non sempre, succubi di Roma.

Certo c’è stato un periodo in cui eravamo fieri e padroni, era il tempo dei Florio, era il tempo di Crispi, primo ed ultimo palermitano Presidente del Consiglio. Da allora il sentimento di colonia è stato profondamente scavato nell’animo siculo. E se dovevamo essere colonia meglio di un padrone ricco e lontano, come gli Stati Uniti, che con Roosevelt, che venne proprio a Castelvetrano, ci aveva sedotti e poi abbandonati. Come quelle donne rimaste incinte dei liberatori oltreoceano.

La vulgata politica di Messina Denaro è facile come una canzonetta boogie boogie, piove governo ladro e qui, nonostante la siccità, piove di più. Gli isolani sono così, diffidenti del continente, ma succubi. Ma perché non si ribellano come fece Finocchiaro Aprile, ben irrobustito dai mafiosi del dopoguerra?

Perché i mafiosi poi più che alla loro terra, ai loro concittadini, tengono alla loro avidità, e trattativa dopo trattativa, strage dopo strage, fin da Portella della Ginestra, si accordano con il potere fuori dall’isola a cui tengono sempre alla fine il cordone. Un cordone ombelicale quello dei siciliani con il potere, in una terra in cui comandare è “megghiu che futtere”.

In cui i mafiosi e parti dello Stato sono insieme in un gioco delle parti, che Sciascia aveva ben descritto in Todo modo. Altro che spirito di ribellione contro uno Stato tiranno. Può mai lamentarsi dello Stato uno come Messina Denaro dopo trent’anni di garantita latitanza dorata, tra lusso e amanti, tra business di tutti i tipi e impero territoriale indiscusso.

Era tutto nella sua terra, giustiziere, imprenditore, banchiere, financo sensale di olio, il frutto prediletto di un Belice, questo sì, sopraffatto dai suoi metodi. Metodi differenti magari rispetto ad altri boss, ma sempre mafiosi, in cui non si è liberi ma condizionati al volere di uno. Non era ovviamente la libertà per i siciliani che invocava Messina Denaro, ma un altro assetto di potere, in cui i “Romani” gli scassassero meno la minchia di quanto già facessero. Pur non prendendolo, misteriosamente, gli vessavano la famiglia, soprattutto le amate sorelle, a lui devote.

Messina Denaro vagheggiava indipendenza, come Salvatore Giuliano, morto per mano di Pisciotta guarda caso a Castelvetrano, che pare caput mundi. Un mondo alla rovescia.

Così è se vi pare.

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