Il migliore cresce, l’ultimo esce - QdS

Il migliore cresce, l’ultimo esce

Carlo Alberto Tregua

Il migliore cresce, l’ultimo esce

giovedì 09 Luglio 2009
Ci chiedono perché scriviamo ogni settimana l’editoriale improntato e Etica & Valori.
Siamo profondamente convinti che senza il riferimento costante ad entrambi, qualunque cosa si faccia non serva. Non è possibile pensare di fare le migliori cose, se esse non sono verificate nel metodo dai valori, che sono tantissimi. Quindi è difficile che la loro griglia non imbrigli qualunque attività umana. Chi facesse finta di ignorarli e chi li ignorasse avrebbe annullato gran parte del proprio sforzo perché non saprebbe quali siano le regole etiche a monte di quanto egli faccia.
Bisognerebbe che quotidiani e televisioni parlassero di più dei valori, ricordandone la loro lontana origine, risalente almeno a un millennio prima dell’era cristiana. Solo gli stupidi dicono che parlare di valori sia tempo perduto.

In qualunque organismo, in qualunque organizzazione, deve essere presente il valore del merito. Esso è stato recentemente scoperto come una novità, mentre prima dell’era del famelico avvento di un ceto politico corrotto (ci riferiamo al 1980 e anni successivi) esso era ben presente nella comunità nazionale.
In base a tale valore, in qualunque struttura vige la regola: “Il migliore cresce, l’ultimo esce”. Traduciamo: è indispensabile che chiunque metta nel proprio lavoro capacità, competenze, abnegazione e spirito di sacrificio consegua risultati e, per essi, debba essere premiato. Quindi, il migliore cresce.
Per contrapposto, chi è fannullone, infingardo o non ha capacità, derivanti dalla mancanza di voglia di produrre risultati esce.
Si tratta della selezione che c’è in natura e che solo la distorsione di menti umane malate, corrotte e clientelari pone in atto per raggiungere fini privati.
La maldicenza, la gelosia, l’invidia, sono disvalori frequenti in strutture non organizzate ove non c’è come punto di riferimento un codice morale. E questo imbarbarisce i rapporti.

 
Se la competizione ovvia che si deve trovare in tutti gli organismi ha un senso, non è pensabile che le persone stiano al di fuori di essa, a meno che non si tratti di privilegiati o raccomandati, dannosissimi alla collettività perché consentono di mantenere vantaggi a classi sociali o a categorie economico-professionali che impediscono alle persone preparate di elevarsi anche come frutto di notevoli sacrifici.
La formazione e la preparazione sono un ascensore sociale. Chi proviene da categorie meno fortunate deve contare esclusivamente sulle proprie forze, non potendo avere appoggi o, come si usa dire, santi in Paradiso.
Ma se questo soggetto, capace e volenteroso, non può competere ad armi pari con gli altri, non riesce a far prevalere la sua bravura perché il privilegiato la annulla con il suo status sociale.
Riteniamo normale che professionista o imprenditore aiutino il proprio figlio a fare il suo mestiere, ma lo Stato deve intervenire con regole precise e inequivocabili per impedire distorsioni alla concorrenza.

Se l’Italia è un Paese malato e arretrato lo deve alla mancanza di competitività, cioè alla mancanza di concorrenza. Essa è l’elemento principale della competizione, che consiste nel mettere sullo stesso piano tutti coloro che partecipano a una gara sportiva, sociale, professionale o imprenditoriale.
Alcuni liberisti dicono che il mercato regola tutti i rapporti. Niente di più falso e niente di più vero. Il mercato regola i rapporti in maniera equitativa se vi sono regole che tutti debbono osservare, il cui controllo è ferreo, dal quale nessuno sfugge.
Se invece nel mercato si annida il virus del privilegio, cioè di oligopoli, monopoli – sia pure pubblici – esso non funziona più in modo equo e, per conseguenza, viene meno la possibilità per i bravi di andare avanti, mentre si vedono superati dai raccomandati.
In questa fase, in cui le riforme sono indispensabili, è altrettanto indispensabile che a monte di ciascuna di esse vi sia l’incipit nel quale si affermi il principio morale del merito al quale va aggiunto quello che lo completa: la responsabilità.

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