Dal Messinese a Cincinnati per curare sepsi e traumi - QdS

Dal Messinese a Cincinnati per curare sepsi e traumi

redazione

Dal Messinese a Cincinnati per curare sepsi e traumi

Giulia Biazzo  |
mercoledì 18 Ottobre 2023

Un’eccellenza siciliana: l’attività di ricerca di Basilia Zingarelli negli Usa. “La formazione italiana è ottima ma servono più infrastrutture”

SANT’ANGELO DI BROLO (ME) – Conferita il primo ottobre nel suo paese di origine, Sant’Angelo di Brolo, nel messinese, la cittadinanza onoraria alla dottoressa e ricercatrice Basilia Zingarelli. Partita dal Messinese, oggi dirige il laboratorio di ricerca di un ospedale di Cincinnati (Usa) dove vive e lavora da anni con passione instancabile: un’eccellenza siciliana. L’abbiamo intervistata per conoscerla meglio.

Lei dirige il laboratorio di ricerca per la Terapia intensiva del Children’s Hospital di Cincinnati e ha ottenuto brillanti risultati: qual è stato il suo percorso?
“Mi sono iscritta alla facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Messina e ho frequentato da interna l’istituto di Farmacologia allora diretto dal professore Achille Caputi, mia guida. È stato proprio lì che ho imparato i modelli sperimentali di ricerca. Laureata nel 1990, sono passata alla facoltà di Tossicologia medica per la specializzazione ma il dottor Caputi mi ha proposto di congelare la specializzazione per fare un dottorato di ricerca in medicina sperimentale a Messina, con supporto finanziario: ho accettato e sono entrata. Da lì sono stata prima a Napoli alla facoltà di Farmacologia sperimentale dell’Università Federico II con il professore Massimo di Rosa e poi dritta negli Usa grazie a varie borse di studio che mi hanno permesso di vivere e fare ricerca. Ho vinto anche la Bonino-Pulejo. Negli Usa ho partecipato a un congresso nazionale di Farmacologia dove il dottor James Cook, che allora collaborava con l’Università di Messina, mi invitò a continuare il dottorato di ricerca alla Medical university a Charleston, dove quindi sono rimasta dal 1993 al dicembre 1994. A quel punto volevo tornare in Italia per finire il dottorato e per continuare con medicina generale ma nel giugno del 1994 ho vinto il premio giovane ricercatrice della Usa Shock Society, specializzata nel cardiovascolare, e ho conosciuto il direttore di Terapia intensiva di Cincinnati. Così è arrivata la proposta di un laboratorio di ricerca che inizialmente ho rifiutato, perché ero stanca di stare da sola fuori casa. Anche in Italia però il direttore ha continuanto a cercare di convincermi fissando un appuntamento negli Usa. Dopo vari confronti con Caputi ho accettato questa grande occasione di ricerca scientifica. Nel gennaio del 1995 sono andata a Cincinnati e ho continuato la ricerca cardiovascolare con borse di studio italiane e con fondi americani di ricerca. Dopo aver discusso la tesi di dottorato nel 1997 che mi ha conferito il titolo di dottore di Medicina sperimentale, mi è stato offerto il lavoro nel laboratorio di ricerca di Cincinnati come docente universitario. Alla fine, da Cincinnati non me ne sono più andata: lì ho conosciuto anche mio marito”.

Lei si occupa di sepsi e trauma: di cosa si tratta?
“Sepsi e trauma sono tra le cause principali di mortalità nelle Terapie intensive: al livello pediatrico rappresentano dal cinque al cinquanta per cento dei casi. Il fattore sociale è determinante: dove ci sono meno possibilità economiche è più alto il rischio di ammalarsi. La sepsi si verifica in seguito a un’infezione batterica e si può sviluppare una risposta infiammatoria altamente deleteria che, se non trattata, porta all’insufficienza organica multipla e alla morte. Attualmente non ci sono terapie tranne quella antibiotica ma non su tutti è efficace; si usa anche la resuscitazione, respiratori artificiali, dialisi ecc… Noi individuiamo i pazienti a rischio su cui le terapie base non funzionano intervenendo con medicina di precisione: valutiamo quali sono le necessità in base a Rna e geni del paziente, cerchiamo di instaurare terapie specifiche individualizzate e sperimentali. Io mi occupo anche di sistema metabolico e di come questo reagisce in un processo di sepsi o trauma al livello mitocondriale e nella fase di collasso delle cellule. Per noi è molto importante costruire un ponte diretto tra ricerca di base di laboratorio e ricerca clinica con il paziente”.

Quali sono secondo lei le differenze tra sistema sanitario americano e italiano?
“In linea di massima, c’è un divario economico enorme. Il sostegno finanziario alla ricerca in Usa è sostanzioso, fortemente meritocratico. Nell’Istituto nazionale di sanità c’è un Comitato ricerca che valuta i progetti e la percentuale di ricercatori che viene finanziata va al massimo al 18/20%, quindi si premia solo l’elevata qualità. C’è poi una virtuosa collaborazione tra scienziati di base e clinica: il salto dal laboratorio al paziente non è così lungo. Infrastrutture e sistema legislativo influiscono molto”.

Giovani e ricerca medica in Italia: a che punto siamo?
“I laboratori di ricerca in Italia sono di avanguardia, per me la formazione italiana è stata ottima, soprattutto a Napoli dove c’era già la cultura di aprirsi allo scambio con l’estero. Questa cultura io la vedo sempre di più. Sono da poco stata a Vienna per rappresentare la Shock Society: sette erano i rappresentanti americani, io ero l’unica donna, e una delle presenze magistrali era quella di Alberto Mantovani, italiano e presidente della fondazione Humanitas per la ricerca. Le nostre eccellenze italiane si sono magari formate fuori, ma ritornando in Italia portano ottime competenze. Abbiamo bisogno però di più infrastrutture”.

Che sensazioni ha provato durante il conferimento della cittadinanza onoraria a Sant’Angelo di Brolo?
“Sono stata molto felice e commossa. Ho pensato a mio padre che ha sempre dato un grande peso all’istruzione. Lui è nato prima della seconda guerra mondiale e ha vissuto il periodo di crisi, subìto molto dalle campagne. Per lui sarebbe stato un grande motivo di orgoglio vedermi, ma purtroppo è deceduto dieci anni fa. Sono stata felice anche per mia madre, che è stato bello avere con me. Avere una figlia all’estero è un sacrificio per tutta la famiglia. Questo, però, è un nuovo tipo di emigrazione che serve a continuare la missione nella professione che si sceglie e ottenere risultati più concreti nella ricerca scientifica. Sono stata onorata perché tengo al mio paese d’origine: è un posto di ritiro spirituale in cui ricordo la mia infanzia, soprattutto stando nella nostra casa di campagna. Ci torno di rado ma già una settimana mi riempie. Per me tutto il paese è una grande famiglia”.

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