Donne: violenza e mafia non sono cosa nostra - QdS

Donne: violenza e mafia non sono cosa nostra

redazione

Donne: violenza e mafia non sono cosa nostra

Roberto Greco  |
venerdì 08 Marzo 2024

La prima organizzazione di massa per dire no alla criminalità organizzata? Fu un’associazione di donne. Così come furono le donne le prime a costituirsi parte civile contro i clan

È certo che le donne in Italia e nel Mondo delinquono pochissimo rispetto agli uomini. I dati del Ministero dell’Interno Italiano registrano che su 53.697 detenuti il 4,2% sono donne, per i reati di mafia la presenza femminile sembra essere ancora meno incisiva: su 7.106 detenuti al 31 dicembre 2017 per associazione mafiosa le donne erano solo 134, cioè meno del 2% del totale.

Per lungo tempo nella cronaca e nella storiografia della criminalità le donne sono apparse prima vittime, poi indotte al crimine, quasi costrette da qualcuno, raramente protagoniste volontarie, autodeterminate in azioni criminali. Molto spesso le donne sono vittime dirette o indirette della violenza mafiosa e divengono le icone del dolore, chiuse nel loro silenzio.

La prima associazione di massa contro la mafia fu un’associazione di donne. Le prime persone che si costituirono parte civile per l’assassinio dei loro congiunti sono state le donne e molte sono state le donne, familiari di uomini delle istituzioni uccisi, che si sono impegnate nella lotta alla mafia. Dopo le stragi del 1992 alcune donne scelsero il digiuno come forma di protesta.

Donne in prima linea contro le mafie

L’esercito delle donne in prima linea contro le mafie è ben nutrito e determinato. Madri, sorelle, figlie e mogli cui la mafia ha ucciso i loro familiari ma anche donne che oggi siedono negli scranni più alti del contrasto istituzionale con ruoli di primo piano all’interno della magistratura e delle forze dell’ordine. Donne che non hanno nulla da invidiare agli uomini e che mettono tutte se stesse per contrastare le mafie. Donne che fanno sentire alta la loro voce, donne che, con determinazione, guidano i blitz di contrasto e, nelle aule dei tribunali, interrogano criminali mafiosi e lanciano accuse dirette con le loro requisitorie.

Pochi ricordano le donne organizzate nei Fasci siciliani o ricordano Anna Nocera che aveva 17 anni quando scomparve nel nulla. Fu il mafioso Leonardo Amoroso a sedurla e poi a disfarsi di lei. Era il 10 marzo 1878 e Anna è vittima del primo femminicidio di mafia. La prima donna a mettersi in prima linea contro la mafia per ottenere giustizia fu Giuseppina Di Sano, madre di Emanuela Sansone, uccisa dalla mafia il 27 dicembre 1896. Due colpi di fucile. Il primo ferì Giuseppina al braccio e al fianco mentre il secondo colpì Emanuela alla tempia uccidendola. Giuseppina non si sottrasse e, nonostante le minacce, ha collaborato attivamente con la giustizia non sottraendosi a una denuncia a viso aperto, uno dei primi esempi del ruolo positivo delle donne, troppo spesso ignorato e dimenticato.

“Se le donne dei morti ammazzati si decidessero a parlare così come faccio io, non per odio o per vendetta ma per sete di giustizia, la mafia in Sicilia non esisterebbe più da un pezzo” diceva nel 1964 Serafina Battaglia, prima pentita di mafia e a lungo icona della guerra a Cosa Nostra, in un’intervista rilasciata al giornalista Mauro De Mauro. Michela Buscemi ha raccontato come la mafia ha assassinato i suoi due fratelli, Francesca Serio era la mamma di Salvatore Carnevale, il sindacalista ucciso il 16 maggio 1955 con due colpi alla testa e uno in bocca e condusse la lunga battaglia per avere giustizia.

L’elenco delle “madri coraggio” è lungo

Ma l’elenco delle “madri coraggio” è lungo, e non possiamo dimenticare Felicia Bartolotta, la madre di Peppino Impastato che lottò in prima persona per avere verità e giustizia per il figlio ucciso o Graziella Accetta, madre di Claudio Domino, un bambino di appena 11 anni assassinato il 7 ottobre 1986 a Palermo, una madre che ancora oggi non ha avuto né verità tantomeno giustizia.

Graziella Accetta gira nelle scuole di tutta Italia per raccontare non solo il suo Claudio ma anche i 109 bambini uccisi dalle mafie, vittime innocenti di cui si parla troppo poco. E ancora non possiamo dimenticare la giovane Rita Atria che decise di collaborare con la giustizia e che fu isolata dalla sua stessa famiglia e dalla comunità di Partanna, il paese in cui viveva, perché per molti era un disonore mantenere legami con chi aveva rotto il muro dell’omertà. E poi Lea Garofalo, Maria Concetta Cacciola, Tita Buccafusca, donne che hanno deciso di allontanarsi dall’universo mafioso e proprio per questo sono state uccise, oppure Marilena Donna, figlia e madre, che vive sotto minaccia di morte dal 2010 a seguito di estorsioni da parte di clan mafiosi all’attività commerciale del marito, e che ha deciso di fare l’unica cosa giusta, ossia parlare, denunciare e testimoniare. Vive sotto un programma di protezione testimoni, lontano dal luogo in cui è nata, dalla sua famiglia d’origine, lontano dagli amici.

Le donne testimoni di giustizia preferiscono optare per la scelta della vita piuttosto che piegarsi ai dettami della mafia, che rappresenta la morte. Negli ultimi decenni, attraverso le testimonianze di tante collaboratrici di giustizia, è stato possibile ricostruire le strutture gerarchizzate di Cosa Nostra e ciò ha consentito agli inquirenti di scoprire gli obiettivi dei malavitosi, di smascherarne le strategie, di risalire ai mandanti in circostanze segnate da delitti irrisolti: in sostanza, queste donne hanno permesso l’arresto di boss mafiosi e il sequestro e la confisca di patrimoni immensi, accumulati illecitamente proprio dai loro congiunti.

Molte sono oggi le donne che hanno ruoli apicali nelle istituzioni e nelle Forze dell’Ordine. Donne che oggi organizzano e dirigono importanti blitz antimafia, che interrogano collaboratori di giustizia o che, nelle aule di tribunale, rappresentano l’accusa nei confronti dei boss, donne che nulla hanno da invidiare agli uomini. E molte sono le donne che sono impegnate in prima persona nella società civile, nelle associazioni che offrono supporto e in quelle che rappresentano le loro istanze.

Lia Sava, Procuratrice generale presso la Corte d’Appello di Palermo

“Mai subite discriminazioni sul lavoro, vero ostacolo conciliare carriera e figli”

Lia Sava, procuratrice aggiunta di Caltanissetta

Interviene al QdS, in occasione dell’8 marzo, Lia Sava, dal 2022 procuratrice generale presso la Corte d’Appello di Palermo. Entrata in magistratura nel 1990, dal 1995 al 1998 è stata pubblico ministero alla procura di Brindisi applicata alla DDA di Lecce. Dal 1998 al 2013 è stata pubblico ministero a Palermo facendo parte, dal 2001 al 2011, della locale DDA. Dal 2013 al 2018 è stata Procuratore della Repubblica aggiunto presso la DDA di Caltanissetta e dal 2018, procuratore generale nella stessa sede nissena.

Sembra che sia stata, finalmente, raggiunta una parità di ruoli e responsabilità, all’interno della magistratura, parità che non tiene conto delle differenze di genere. Qual è stato, nel corso della sua carriera, il rapporto con la parte “maschile” dei suoi colleghi? Ritiene che oggi, per una donna, sia più facile decidere di intraprendere una carriera togata con prospettive di ricoprire anche ruoli apicali senza il rischio di vedere minimizzato il proprio lavoro?
“Il mio rapporto con i colleghi uomini è stato sempre improntato al massimo rispetto reciproco e si è poggiato su una corretta e appropriata comunicazione. Nello svolgimento del mestiere di magistrato, che ho intrapreso nel 1990, e nelle diverse sedi dove ho operato non ho mai subito alcuna forma di discriminazione, neppure larvata, connessa al mio essere donna. Ho lavorato tanto, insieme ai miei colleghi uomini e donne, costruendo rapporti sani e collaborando, senza distinzioni di sesso, per il miglioramento del servizio giustizia. Tale sinergia volta al raggiungimento di un obiettivo comune l’ho realizzata anche con il foro, maschile e femminile, senza differenze, con il personale amministrativo e con le forze dell’ordine, sempre senza alcun disagio, connesso al mio essere donna, nelle interlocuzioni istituzionali necessarie allo svolgimento della mia professione. Nessuno mai ha minimizzato il mio lavoro né quello delle altre colleghe, almeno per quello che a me consta direttamente. Le difficoltà, serie difficoltà, e purtroppo persistono, per quanto apprendo da colleghe più giovani, sono state quelle connesse all’armonizzazione fra la sfera familiare e quella professionale quando i miei figli erano piccoli e quando ho dovuto assistere mia madre anziana e malata. In quei frangenti, in mancanza di strutture pubbliche, penso ad asili nido all’interno degli uffici giudiziari, ho dovuto fare sacrifici complessi per svolgere il mio ruolo di magistrato requirente presso una Direzione Distrettuale Antimafia e portare avanti il mio compito di madre. Ricordo che dormivo poche ore per notte per fare tutto e farlo al meglio, avvalendomi di costose collaborazioni esterne e di scuole private che garantivano, ad esempio, il tempo pieno ai miei bambini. Sono stati anni complessi, nei quali ho percepito una differenza significativa fra me ed i colleghi uomini perché, storicamente, il carico familiare è quasi esclusivamente sulle spalle delle donne e questo può, effettivamente, essere di ostacolo allo svolgimento di lavori complicati e delicati come quello che si porta avanti nelle Procure della Repubblica. In quella fase della vita, quando ero una madre, una figlia che doveva assistere un genitore malato ed ero anche impegnata in processi complessi ho dovuto fare sacrifici che avrebbero potuto essere ‘alleviati’ se ci fossero state maggiori strutture pubbliche a sostegno della donna lavoratrice. In questa direzione c’è ancora molta strada da fare”.

Procuratrice, il suo lavoro l’ha sempre vista impegnata direttamente nelle attività che riguardano indagini e processi contro la criminalità organizzata. Si è trattato principalmente di un rapporto con criminali di genere maschile. Ci sono stati episodi, soprattutto nel passato, in cui ha subito tentativi di delegittimazione, o minimizzazione del ruolo che stava esercitando, per il suo essere donna?
“In realtà, anche in questa direzione, non ho mai percepito tentativi di delegittimazione da parte di chicchessia. Forse, in prima battuta, penso ai collaboratori di giustizia, quando vedevano una donna per gli interrogatori, nei primi anni ‘90, rimanevano un po’ stupiti, la cultura mafiosa è maschilista, non dobbiamo dimenticarlo, ma appena si avviava l’atto istruttorio anche quel minimo senso di diffidenza scompariva perché chi avevo di fronte comprendeva che nella gestione delle vicende di criminalità organizzata conta la professionalità e lo studio accurato delle carte processuali, non certo il sesso di chi è titolare del procedimento”.

Le donne continuano a essere al centro di una perpetrata violenza nei loro confronti. Ricordo che, nel 2015, si svolse a Sarajevo il primo Tribunale delle Donne in Europa. Pur trattandosi di un tribunale che analizzava crimini compiuti durante la guerra nell’ex Jugoslavia, tra gli elementi presi in esame al tempo c’erano la continuità della violenza, le sue conseguenze di lungo periodo nella vita personale, l’impunità dei violentatori, la misoginia delle istituzioni, l’importanza delle reti di donne, temi che ancor oggi suonano come contemporanei. A suo giudizio, oggi, la situazione è migliorata o la società deve ancora fare grandi passi in avanti?
“La situazione non è certo migliorata. La violenza alle donne nei contesti di guerra, e non solo, è allarmante, sconforta e desta enorme preoccupazione. La ‘società globale’ deve fare ancora molti passi avanti per costruire un senso etico complessivo che implica il rispetto per il genere femminile e per i bambini, spesso vittime di atti d’inenarrabile crudeltà. Ma per realizzare il ‘salto etico’ in questa direzione occorre pace, educazione al rispetto e trasmissione di valori che non possono certo germogliare rigogliosi negli scenari di guerra e di povertà che paiono allargarsi sempre di più”.

Oggi molti episodi di violenza nei confronti delle donne, anche molto giovani, sono perpetrati da altrettanto giovani uomini che sembrano aver ereditato quel senso di possesso e d’impunità che cerchiamo di combattere da diversi decenni. È pur vero che l’attuale legislazione, finalmente specifica, ci fornisce strumenti di contrasto al fenomeno ma ritiene che si debba puntare di più sull’educazione sentimentale e sulla prevenzione attraverso una forte “iniezione” di senso del rispetto nei confronti dell’altro?
“È vero, assistiamo a un incremento esponenziale di atti violenti nei confronti di giovani donne perpetrati da uomini altrettanto giovani. Sembra quasi che, a dispetto di un’emancipazione di ruoli femminili, si ripresentino spettri agghiaccianti di modelli maschilisti che tendono a considerare la donna come un oggetto di esclusiva proprietà del compagno. Il legislatore sta compiendo sforzi significativi per il contrasto al fenomeno e le Procure della Repubblica, in prima battuta, hanno organizzato il loro lavoro per intervenire immediatamente e con sapienza investigativa per scongiurare o arginare condotte che posso sfociare in terribili fatti di sangue. In questa direzione è massimo l’impegno anche delle Forze dell’Ordine sempre più specializzate nel settore della tutela delle fasce deboli, all’unisono con la magistratura requirente. Le assicuro che nel nostro Distretto i sacrifici e l’impegno di magistrati e investigatori in questo settore è davvero encomiabile, nonostante le pesantissime carenze di organico che scontiamo. Ma evidentemente il nostro sforzo sinergico non è sufficiente. Ci vuole, ancora una volta, ‘il salto etico’. Come possiamo favorirlo? Non vedo altra strada se non quella di insegnare alle nuove generazioni di uomini che l’amore, quello vero, è prima di tutto rispetto e libertà di scegliersi, ogni giorno, senza prevaricazioni. Occorre, inoltre, sensibilizzare le giovani donne al fatto che ‘meritano rispetto’ e al minimo segnale di prevaricazione fisica o psicologica devono denunciare e proteggere la propria dignità e la propria vita. Molto può fare la scuola, in questo senso, ma credo che soprattutto le famiglie debbano essere sensibilizzate, da un lato, alla sfera educativa dei figli, forse trascurata da genitori poco presenti, e, dall’altro, ad ‘osservare’ i comportamenti disallineati o disfunzionali dei più giovani che si muovono fra le mura domestiche. Il cammino è irto di difficoltà, in questa direzione, ma lo sforzo collettivo deve essere armonico, costante e coraggioso ed implica pazienza, determinazione e costante interlocuzione fra le istituzioni per rendere definitivamente fermi i pilastri della parità di genere”.

Intervista a Tiziana Tracuzzi, coreferente regionale di “Libera”

“Il modello di violenza del femminicidio ha una radice simile ai fenomeni mafiosi”

Interviene al QdS Tiziana Tracuzzi, referente messinese e co-referente regionale di “Libera”, la rete di associazioni, cooperative sociali, movimenti e gruppi, scuole, sindacati, diocesi e parrocchie, gruppi scout, coinvolti in un impegno contro le mafie, la corruzione, i fenomeni di criminalità e chi li alimenta.

Quando avviene il suo incontro con “Libera”?
“Era il 2011. Conoscevo l’associazione già da prima e, in quel momento, dopo aver terminato il periodo di studi a Bologna, rientrai nella mia città, Messina. Una persona che avevo frequentato nel periodo universitario, anche lei siciliana, era rientrata a Palermo e, per lavoro, era entrata in contatto con ‘Libera Palermo’. In quel momento stavano cercando una persona che aprisse un presidio a Messina per coordinare il lavoro all’interno delle scuole. Il mio periodo di studi fuori dall’isola, in realtà, aveva per me rappresentato una ‘fuga’ dalla Sicilia e questo incontro è stato lo sprone per rimanere e chiudere il percorso di riconciliazione con la mia terra”.

Di che cosa si occupa, in seno a “Libera”?
“Semplificando, ma non sminuendo, metto insieme le persone per costruire un percorso comune. Si tratta di istituti scolastici, parrocchie, cooperative sociali, associazioni che si occupano di diritti sociali. I contesti in cui interveniamo sono quelli in cui ingiustizia, violenza e soprusi sono all’ordine del giorno e il nostro intervento mira a rendere proprio questi contesti più ‘giusti’”.

Quanto è importante essere donna per svolgere un’attività come la sua?
“Le donne che ho incontrato nella mia vita sono state determinanti, loro, le loro storie e la loro dignità e per me, in quanto donna, sono state da sprone”.

La giornata dell’8 marzo mette al centro le violenze nei confronti delle donne. Tra queste violenze non posso dimenticare quelle subite dalle familiari delle vittime di mafia…
“Queste tematiche, le storie di donne innocenti vittime di mafia e di femminicidio, saranno al centro della nostra iniziativa che si terrà il prossimo 21 marzo, nell’ambito della ‘Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime di mafia’. Non è una scelta casuale perché il modello di violenza che sta dietro al femminicidio ha radici simili ai fenomeni mafiosi del dominio e del possesso, quella violenza che hanno dovuto subire le vittime di mafia, quelle madri e sorelle che continuano a piangere i loro familiari morti e che ancora oggi sono alla ricerca di verità e giustizia”.

Leggi l’intervista a Pinuccia Albertina Agnello, Questore di Caltanissetta

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