Enrico Ruggeri, una canzone per Chico Forti, "Un atto d'amore" - QdS

Enrico Ruggeri, una canzone per Chico Forti, “Un atto d’amore”

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Enrico Ruggeri, una canzone per Chico Forti, “Un atto d’amore”

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sabato 06 Febbraio 2021

L'artista parla in esclusiva a qds.it: "Abbiamo deciso di uscire con il singolo, a sorpresa, fuori da ogni legge di mercato, senza nessuna strategia. Si è trattato di un atto di amore, un voler muovere le coscienze, di esprimere la necessità di portare a conoscenza di più persone un evento e sensibilizzarle"

Presentare Enrico Ruggeri può sembrare superfluo. Cantautore, scrittore, conduttore televisivo e radiofonico, vincitore per due volte del Festival di Sanremo, la sua musica e le sue parole hanno accompagnato almeno due generazioni di italiani.

Le sue prime esperienze musicali risalgono al 1972 quando,
studente quindicenne del Liceo Ginnasio Giovanni Berchet di Milano durante gli
anni della contestazione studentesca, inizia a suonare in cantina con un gruppo
di amici e fonda il suo primo gruppo, gli “Josafat”, che nel 1974 con
l’ingresso di Silvio Capeccia, si trasformano in “Champagne Molotov”,
nome che ricorrerà spesso nella prima parte della carriera solista del
cantautore. Poi l’avventura con i “Decibel” e tutto il resto, fino ai giorni
nostri, è storia.

Nel 2020, quello che verrà ricordato l’anno della pandemia, Enrico non si è mai fermato. Ha prodotto gli album di due artisti, ha dato alle stampe il suo nuovo romanzo ed è uscito,a  sorpresa, con un suo nuovo singolo dal titolo “L’America (Canzone per Chico Forti)”.

Avevi già scritto
“Nessuno tocchi Caino”, un brano di grande impegno sociale e ora ahi deciso di
raccontare la storia di Chico Forti. A cosa si deve questa tua scelta?

È difficile dire perché si sceglie di scrivere una canzone, perché si sceglie un argomento piuttosto che un altro. Si scrive su argomenti che ti emozionano e che a volte rimangono nella tua anima per lungo tempo, per anni.

È questo che mi è successo. In questo lungo periodo ho passato e passo molto tempo in studio, con la mia band. Proviamo i pezzi, studiamo nuovi arrangiamenti e nuove soluzioni sonore anche per sfruttare al meglio questo “lungo tempo immobile” dovuto alla pandemia.

Tra le tante cose, spunta questa canzone. Senza fretta, pensando a un disco che forse sarebbe uscito tra due anni. Poi, un giorno, la situazione di Chico Forti cambia.

Subito prima di Natale arriva la notizia che la Florida ha accolto l’istanza presentata, in effetti diversi anni fa, e quindi Chico Forti tornerà in Italia dopo vent’anni trascorsi in un carcere di massima sicurezza in Florida per un omicidio al quale si è sempre dichiarato estraneo.

Ho deciso, quindi, di far ascoltare il brano allo zio di Chico, Gianni Forti. Mi ha subito presentato Massimo Chiodelli, uno dei più grandi fumettisti italiani che già aveva realizzato con lui “Una dannata commedia” un libro a fumetti su Chico Forti. Massimo mi ha presentato Thomas Salme, regista svedese, amico di Chico Forti e, assieme, abbiamo deciso di realizzare per la canzone un videoclip usando sia le immagini di Chiodelli sia diverse immagini in studio.

Abbiamo deciso di uscire con il singolo, a sorpresa, fuori da ogni legge di mercato, senza nessuna strategia. Si è trattato di un atto di amore, un voler muovere le coscienze, di esprimere la necessità di portare a conoscenza di più persone un evento e sensibilizzarle.

Al tuo attivo hai diversi
libri, tra i quali quattro romanzi, alcuni libri di racconti e di poesia. Con
“Un gioco da ragazzi”, il tuo ultimo romanzo, ti proietti all’interno del 1968,
anno che culturalmente ti appartiene.

Una buona norma, quando si affronta la scrittura di un libro, è quello di occuparsi di cose che si conoscono. Quello è un periodo che conosco. Ho vissuto il dopo guerra grazie ai racconti degli adulti che mi circondavano, ho vissuto da bambino il boom degli anni ’60, le Fiat 600 acquistate dal papà che tornava a casa suonando il clacson e con il volto sorridente, l’acquisto del primo televisore e lo sguardo della vicina che, con la scusa di chiedere un po’ di zucchero, entrava si fermava a guardarla.

Seppur con gli occhi di un bambino, ho vissuto quel tragico 12 dicembre 1969, la strage di piazza Fontana, quello spartiacque terribile che segna la fine degli anni ’60, la fine del sogno e l’inizio di un’altra stagione. Da studente di uno dei licei più “caldi” di Milano, il Berchet, ho invece vissuto i primi tumulti e gli anni di piombo.

Il mio liceo, in quel periodo, era frequentato anche da persone che poi avremmo scoperto essere terroristi, assassini e poi arrivò l’eroina. Ho visto gente morire di overdose, di AIDS, ho conosciuto persone che poi sono finite in carcere. Pur essendo un liceo “bene”, il liceo che frequentavo era, in quegli anni, lo specchio della società. Ho deciso di raccontare una piccola storia per raccontare la storia di tutti. Si tratta della storia di una famiglia, di due fratelli che, pur essendo stati educati allo stesso modo, prendono due strade completamente diverse. Il primo segue una deriva da extra-parlamentare di sinistra che lo porterà sino all’eversione “rossa” mentre l’altro, per reazione, rifiuta quel mondo e diventa sodale dell’eversione “nera”, il tutto condito da avventure rocambolesche, un po’ thriller e, in ultima analisi, drammatiche.

Quanto c’è di
autobiografico in questa storia?

Tutto e niente. Se vogliamo parlare di un racconto
autobiografico mi identifico più in Aurora, la sorella, quella che cerca di
tenere unita la famiglia. Aurora trova nella musica la sua salvezza ed è quello
che è successo a me. Quando, in quegli anni, camminando per la strada si
sentiva arrivare l’odore acre dei lacrimogeni, ci rifugiavamo in cantina a
suonare. Questo mi ha permesso di osservare quello che succedeva intorno a me,
ma era un mondo dal quale ero abbastanza distante proprio grazie alla musica
che per me è stata salvifica.

Soddisfatto?

È stato un lavoro molto intenso e il lockdown è stato il mio
grande complice. Quando ho iniziato il libro pensavo di metterci alcuni anni
per poterlo scrivere. È stato necessario studiare, informarsi, misurare e
scegliere bene le parole da usare per mantenere il giusto equilibrio. Durante
il lockdown ho potuto dedicargli molto più tempo di quanto non avrei potuto
fare nel mio ménage normale. Ho lavorato sei ore al giorno per tre mesi, cosa
impossibile quando dividi la tua vita tra concerti, spostamenti in auto, prove,
serate con gli amici e la famiglia.

Hai anche trovato il
tempo di produrre due album.

Sì. Il primo è l’album di Silvio Capeccia, il tastierista degli Champagne Motolov, il gruppo che ho fondato proprio con lui, e poi dei Decibel. Un album di suonate per pianoforte dal titolo “Silvio Capeccia plays Decibel – Piano solo” che contiene brani tratti dal repertorio dei Decibel. L’altro album s’intitola “Bestemmio e prego” ed è quello di Massimo Bigi, un debuttante di 62 anni.

È sicuramente un album particolare, molto intenso. Negli anni ’80/’90 sarebbe sicuramente andato in classifica. Oggi forse, c’è meno pazienza, c’è più bisogno di consumare in fretta la musica e poca voglia di ascoltare qualcosa di nuovo. È un album di una freschezza incredibile nonostante la sua genesi sia durata quasi quarant’anni. Come produttore ho cercato di valorizzare l’autore per cui ho lavorato e, soprattutto, di non essere invadente.

Non ha voluto essere l’album mancato di Ruggeri ma l’album di Massimo Bigi, anche grazie alla band incredibile che mi ha coadiuvato. Se ci ho messo del vino, gli altri sono riusciti ad annacquarlo.

Per
il tuo nuovo album, invece?

Sai, è un momento particolare. Già oggi parlare di album si scontra con le abitudini di una generazione che non sa cosa sia un album. Io sto lavorando, fortunatamente ho il mio studio.

Arriverà il momento in cui mi verrà voglia di mettere insieme questi nuovi brani, renderli più omogenei e uscire sul mercato con un mio nuovo lavoro.

Una
battuta. Hai sicuramente seguito la polemica che sta accompagnando l’arrivo del
festival di Sanremo. Quel palco, quello del teatro Ariston, è anche legato alle
tue due vittorie, quella del 1987, quando lo vincesti con “Si può dare di più”
con Umberto Tozzi e Gianni Morandi, e quella del 1993 quando ti classificasti
al primo posto con “Mistero”. Cosa pensi di questa 71° edizione?

Senza voler rischiare il romanticismo affidandosi ai ricordi, deve essere chiaro che il festival è la grande fonte di sostentamento della Rai. Mi fa molto ridere quello che leggo in giro, principalmente sui social, scritto da parte di quelli che sostengono “invece di buttare via i soldi dateli ai poveri”. Non hanno capito come funziona il festival che non butta via il denaro ma lo porta nelle casse della Rai e con quel denaro, con quegli introiti pubblicitari, la Rai riesce a produrre altri progetti che altrimenti non avrebbero risorse.

Il festival si farà, anche se sarà un festival particolare. Ritengo che sia costruito molto sui gusti dei giovanissimi che proprio in questo periodo devono stare chiusi in casa. Tempo fa si diceva che il pubblico televisivo del festival era over 40, over 50.

Questa edizione rappresenta, a mio giudizio, la volontà di aggiungere allo zoccolo duro e storico delle persone che seguono il festival da sempre, le nuovissime generazioni, proprio andando a intercettare direttamente i loro gusti musicali.

Una
previsione sul vincitore, ma anche no.

Ma anche no. Spero che lo vinca Ermal
Meta, perché è un mio amico ed è molto bravo.

Grazie Enrico e, soprattutto, buona musica.

Roberto Greco

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