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I come Inquietudine

redazione

I come Inquietudine

Fabio Gabrielli  |
venerdì 24 Febbraio 2023

Il termine contiene il senso del tremendo, ma anche dello straordinario, del portentoso

Deinòs è abissale parola greca, a indicare, tra le tante sfumature, ciò che produce timore, inquietudine, sgomento, meraviglia. Il termine contiene il senso del tremendo, ma anche dello straordinario, del portentoso. Sofocle, nell’“Antigone”, afferma addirittura che l’uomo è deinóteron, il mirabile, il tremendo per eccellenza (più di ogni creatura).

In modo prosaico, diciamo pure che l’uomo è uno strano animale. Non siamo al centro del mondo, come vorrebbe un ingenuo antropocentrismo, ma certamente abbiamo delle specificità che ci rendono, appunto, strani. A partire dallo sguardo, dall’illuminazione del mondo. Rispetto agli altri viventi, l’uomo, nel momento in cui il mondo gli viene incontro, ha la capacità di illuminarlo.

In altri termini, l’umano illumina quella porzione di mondo che attira il suo sguardo, e lo fa per accogliere o per distruggere, per prendersene cura o per saccheggiare. L’umano non si limita a una sola illuminazione, ma è sempre sollecitato a reiterare questa logica dello sguardo ogni volta che il mondo gli viene incontro, con forme, figure, momenti sempre diversi. In estrema sintesi, l’uomo è un animale aperto. Non siamo luoghi, recinti, angoli, semmai orizzonti, aperture, disseminazioni; siamo fatti per la storia, per raccontare storie, per fare esperienze e dare ad esse una voce e un nome.

La storia umana a cui contribuiamo con la nostra trama, è storia di un animale inquieto, che fa esperienza poiché sa che c’è dell’altro, una continua eccedenza rispetto al mero dato del presente, alla fruibilità dell’adesso, al godimento immediato che, proprio per questo, rilancia sempre sé stesso. L’uomo è inquieto perché è abitato dal desiderio, una dismisura assoluta rispetto alla ratio, al calcolo, alla misura del bisogno.

Come scrive, in “Pane e spirito”, il filosofo Silvano Petrosino: “Il soggetto umano è soggetto a un desiderio, o meglio: è abitato da un desiderio rispetto alla cui natura e al cui sconcerto i termini dell’appropriazione e del godimento risultano ultimamente inadeguati”. Questo significa che l’umana inquietudine è la continua sollecitazione ad aprirsi a un mondo in cui siamo sempre abitati dall’altro, a partire da quel radicalmente altro che è il desiderio, mai perimetrabile o riconducibile alla semplice soddisfazione di un bisogno.

Nel momento in cui convertiamo la logica del bisogno nella logica del desiderio, il desiderio stesso si eclissa. Tutto ciò non deve far pensare a una costituiva frustrazione del soggetto, semmai alla sua creativa vocazionalità, alla sua specificità come quella di un particolare vivente che sa fare esperienza, sa raccontare storie, sa fare della propria vita una continua, inquieta tensione verso altro.

Non è un caso che Agostino sia uno dei filosofi più studiati, proprio perché è stato, forse più di ogni altro, il filosofo dell’inquietudine. In un passo delle “Confessioni”, parlando della propria anima, Agostino ci consegna un messaggio definitivo sull’umana inquietudine: “No, non trovava pace, non nella frescura dei boschi, negli svaghi e nei canti, non nei giardini profumati o nell’eleganza delle feste, non nei piaceri dell’amore e del sonno, neppure infine nei libri e nella poesia”.

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