In Italia salari ingabbiati da 30 anni. Pensionati tutelati, lavoratori fregati - QdS

In Italia salari ingabbiati da 30 anni. Pensionati tutelati, lavoratori fregati

redazione

In Italia salari ingabbiati da 30 anni. Pensionati tutelati, lavoratori fregati

Vittorio Sangiorgi  |
mercoledì 21 Dicembre 2022

L’Inapp rivela che nel trentennio 1990-2020 lo stipendio minimo è diminuito del 2,9%. Già pronto, invece, l’adeguamento all’inflazione degli assegni pensionistici: figli e figliastri

ROMA – I prossimi giorni saranno cruciali per l’approvazione della manovra 2023. Il testo della nuova legge di bilancio, dopo i ritocchi “imposti” dai rilievi dell’Ue, sarà presto al vaglio del Parlamento. Tra gli argomenti più spinosi quello delle pensioni e della rivalutazione degli assegni. Un tema bandiera per Forza Italia, che pare abbia determinato qualche frizione all’interno della maggioranza. Dopo un lungo tira e molla, tuttavia, l’intesa è arrivata e – al di là di esigenze e contingenze del momento – ha confermato una tendenza ormai consolidata nel panorama nostrano. Tutele e benefici in ambito pensionistico, infatti, sono una costante e si perpetuano anno dopo anno, spesso a discapito di altre categorie di cittadini.

Le novità introdotte dal Governo Meloni, a causa delle ristrettezze finanziare, sanciscono il passaggio dall’attuale ed oneroso a tre fasce di rivalutazione ad un più sopportabile schema che ne prevede sei. Il primo mattoncino del nuovo sistema, seppur limitato soltanto al 2023, è l’aumento delle pensioni minime a 600 € per gli ultra 75enni. La ripartizione in sei fasce, valida per il biennio 2023-2024, prevede: la rivalutazione piena per gli assegni fino a quattro volte il minimo (circa 2.100 €), l’adeguamento dell’80% per quelli tra pari o inferiori a cinque volte il minimo, del 50% tra sei e otto volte il minimo, del 40% tra otto e dieci volte il minimo e del 35% per le pensioni superiori a 10 volte il minimo (circa 5.250 euro). Un intervento che ha suscitato parecchie proteste e che ha messo sul piede di guerra i sindacati. Eppure, lo si accennava prima, esistono categorie di italiani che agognerebbero una seppur minima “rivalutazione” nella loro busta paga. A parlare sono i dati e rivelano una verità incontrovertibile.

L’Italia, infatti, è l’unica nazione dell’area Ocse in cui, dal 1990 al 2020, il salario medio annuale è diminuito (-2,9%), mentre in Germania è cresciuto del 33,7% e in Francia del 31,1%. In queste tre decadi è aumentato il divario tra la crescita media dei salari nei Paesi Ocse e la crescita dei salari in Italia, progressivamente dal -14,6% (1990-2000), al -15,1% (2000-2010) e, infine, al -19,6% (2010-2020). Dati che sono stati illustrati e spiegati in occasione del workshop su salari e produttività organizzato dall’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp). Ma quali sono le ragioni di questa situazione? Innanzitutto la competizione con i paesi esportatori di prodotti a basso valore aggiunto, senza dimenticare il ricorso alla manodopera a basso costo e bassa qualificazione che – afferma l’Inapp – ha schiacciato verso il basso contemporaneamente i salari e il livello di produttività nel sistema nostrano. La stessa produttività, d’altre parte, ha registrato dinamiche di crescita molto più lente in Italia che in altri paesi europei. Tuttavia, anche se appare paradossale, la bassa crescita della produttività è stata negli ultimi anni superiore a quella dei salari, rivelando un mancato aggancio dei salari alla performance del lavoro. In pratica, rileva l’istituto, “i salari italiani sono in gabbia intrappolati tra scarsa produttività e esigenze di riduzione dei costi da parte delle imprese. “Certamente la riduzione del cuneo fiscale inserita nella legge di Bilancio – ha spiegato Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp, è un passo importante perché fa crescere il salario netto senza aumentare il costo del lavoro per le imprese. Tuttavia, è ora necessaria una energica politica industriale finalizzata a rimuovere le cause della stagnazione della produttività e a stimolare la dinamica salariale, con beneficio per la crescita della domanda aggregata e del livello di attività economica”.

A proposito di stagnazione della produttività, nel corso del workshop, è stato evidenziato come questa sia causata da molteplici fattori. A farla da padrone sono, da un lato, la carenza di competenze richieste dalle imprese e, dall’altro, la sottovalutazione delle competenze disponibili. Quest’ultimo aspetto chiama in causa le debolezze di un sistema produttivo incapace di valorizzare le competenze dei lavoratori istruiti: basti pensare l’Italia è l’unico Paese del G7 in cui la maggior parte dei laureati è impiegata in attività di routine. Altro fattore degno di nota, da questo punto di vista, è quello legato alle caratteristiche intrinseche dell’imprenditoria italiana. Una recente analisi realizzata dall’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, infatti, dimostra che, proprio le caratteristiche degli imprenditori, sono di fondamentale importanza per l’adozione di tecnologie innovative e per i possibili aumenti di produttività che ne deriverebbero. In particolare, imprenditori più giovani, più istruiti e di genere femminile sono più sensibili all’evoluzione della frontiera tecnologica. Le aziende a conduzione familiare il cui leader è un membro della famiglia sono meno inclini a adottare innovazioni.

Salari bassi e scarsa produttività aumentano inevitabilmente le diseguaglianze. I dati diffusi dal World inequality database mostrano che nel periodo 1990-2021, in Italia, la quota di reddito totale detenuta dal 50% più povero della popolazione è in costante calo: si è passati dal 18,9% del 1990 al 16,6% del 2021. Al contrario, la quota del reddito detenuta dal top 1% è aumentata di circa il 60%.

Il salario minimo può essere una soluzione? Secondo Fadda “va considerato come una base da cui partire per costruire un sistema di diritti e condizioni lavorative decenti, che può benissimo coesistere con misure e intese che incrementino produttività e liberino risorse per un aumento delle retribuzioni. Questo è ancora più urgente con l’inflazione che marcia a doppia cifra e un potere d’acquisto sempre più eroso”. A tal proposito l’Inapp delinea alcuni degli interventi che potrebbero essere messi in campo. Primo punto in agenda la revisione degli accordi che regolano la contrattazione collettiva, a partire dal cosiddetto “Protocollo Ciampi” del 1993, sia a livello nazionale (primo livello) sia a livello aziendale, (secondo livello), che è scarsamente utilizzata. Sempre secondo i rilievi dell’istituto, inoltre, occorre vigilare attentamente sugli effetti “regressivi” dell’inflazione sulla fiscalità, sia attraverso l’Iva, sia attraverso il cosiddetto “drenaggio fiscale” (fiscal drag) causato dal superamento delle aliquote fiscali a seguito dell’aumento dei redditi in valore nominale.

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