La “bella” morte? Quella senza agonia - QdS

La “bella” morte? Quella senza agonia

Carlo Alberto Tregua

La “bella” morte? Quella senza agonia

giovedì 22 Febbraio 2024

Un filosofo sosteneva: “Quanto è bello morire in piedi”

Un filosofo sosteneva: “Quanto è bello morire in piedi”. Che voleva dire? Non siamo dei maghi, ma pensiamo che si riferisse al momento del trapasso senza patemi. Potremmo quindi aggiungere: quale potrebbe essere il desiderio comune a ogni vivente? Probabilmente la risposta sarebbe: avere la “migliore” morte possibile.

Intanto questa parola viene catastroficamente evocata da tutti/e – e così è stato nei secoli – come un momento tragico, letale, tremendo. Nel dolore, invece, bisognerebbe che si capisse la verità e, cioè, che la morte è un fatto naturale, come la nascita. Ma si gioisce per la prima e si sprofonda per la seconda.

Tuttavia, se i due momenti – quello dell’inizio e quello della fine – si collegano e si riflettesse che sono ineluttabili, ecco che dovrebbe sparire dall’orizzonte la tragicità del secondo evento rispetto al primo.
Per conseguenza, qualcuno si potrebbe chiedere: “Qual è la bella morte?”. Si potrebbe rispondere senza ombra di dubbio: “Quella senza agonia”.

Per quanto precede incide la forza dell’intelligenza unita a quella della conoscenza. La prima è il contrario della debolezza della paura, la quale prende istintivamente gli esseri umani e li conduce verso visioni catastrofiche di possibili eventi futuri negativi, che poi magari non si verificheranno, salvo la morte.

Evidentemente non tutti/e sono consapevoli di possedere l’intelligenza, la quale è una forza, anche se tutte le persone umane sono regolarmente dotate di intelletto o di cervello, che pesa in rapporto al peso corporeo.
Ci dispiace notare come a tanta gente, con la puzza sotto il naso, piaccia autodefinirsi intellettuale. Costoro offendono le altre persone perché tutti/e sono in realtà intellettuali, nel senso che sono dotati/e di intelletto.

Si potrebbe osservare che c’è chi lo usa e chi no, ma questa discriminazione è conseguente alla volontà, non alla dotazione personale.
Ovviamente, non tutti/e sono Giovanni Pico della Mirandola o Rita Levi-Montalcini o Erasmo da Rotterdam, ma non occorre arrivare a questi vertici perché tutte le persone sono capaci di pensare, ragionare e riflettere, incamerando continuamente informazioni, cioé attingendo alle fonti del sapere.

Dunque, la “bella” morte è quella senza agonia, cioè quella istantanea: addormentarsi la sera e svegliarsi nel mondo dello spirito.

Ma si tratta di casi sporadici perché, invece, nella maggior parte di essi le persone si ammalano e si infilano nel tunnel della malattia, che può portare alla guarigione, ma anche alla fine della vita terrena.
Attenzione, l’argomento che trattiamo non è lugubre, ma realista. Guai a non sapere le cose come vanno o a non volerle vedere di proposito, perché non vedere i fatti come sono è un modo sciocco di pensare alla realtà, la quale non ci suggerisce nulla di buono, anzi fa errare i nostri comportamenti che, seppur entro certi limiti, debbono essere lineari, avendo chiarezza dell’obiettivo verso il quale ci si dirige.

La consapevolezza dell’esistente dev’essere una costante della nostra vita, pur pensando che la nostra immaginazione o il nostro intuito debbono farci vedere lontano, magari al di là dell’orizzonte, e navigare in quello che si denomina cielo, per cercare ispirazione, che comunque ci deve riportare con i piedi a terra.

Come si fa a vivere in questa maniera? È essenziale conoscere il passato perché chi non lo conosce non può andare verso il futuro.
Intendiamoci, non è che conoscere il passato ci evita di commettere errori, perché quanto accaduto nei secoli precedenti dimostra il contrario. La spiegazione è nel fatto che ogni persona si sente diversa dall’altra e quindi se l’altra ha compiuto degli errori, quest’ultima non li ricompirà.
Non è così. Un esempio per tutti: la Russia fu la sconfitta di Napoleone nei primi del 1800, così come lo fu per Hitler alla fine della seconda guerra mondiale, circa 130 anni dopo.

Questo è il limite delle persone umane: la mancata conoscenza dei propri limiti. Il che, però, può anche essere positivo perché permette di esplorare campi ancora sconosciuti.
Ed è proprio nella direzione di conoscerne di più che bisognerebbe utilizzare al massimo l’intelletto di cui tutti/e siamo dotati/e.

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