Occupazione, il paradosso dei lavoratori siciliani sovraistruiti

Tanti titoli di studio ma lavoro non all’altezza, i siciliani sono costretti ad accontentarsi

Antonino Lo Re

Tanti titoli di studio ma lavoro non all’altezza, i siciliani sono costretti ad accontentarsi

Michele Giuliano  |
giovedì 21 Marzo 2024

Un’altra conseguenza di un mondo della formazione che non produce profili allineati a quanto richiesto dal mercato

Pur di lavorare e sbarcare il lunario, bisogna “accontentarsi”. È questo il ragionamento della scelta del 26% dei siciliani, che occupano un posto di lavoro con un titolo di studio superiore a quello necessario. Una scelta quasi obbligata, in un mondo del lavoro in cui i profili ricercati non sono presenti sul mercato. Una decisione che non soddisfa, un compromesso tra aspirazioni e realtà del mondo del lavoro che non permette di conciliare affetti, voglia di crescere professionalmente e un futuro economicamente promettente.

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I dati

Una condizione che l’Isola condivide con molte altre regioni italiane. Se il picco si registra in Umbria, che sale al 33%, e l’Abruzzo al 30%, sia il Sud che le Isole si mantengono sulla stessa media. Scendono al di sotto la Valle d’Aosta, al 23%, la Lombardia, al 22,5%, il Trentino Alto Adige al 21,1%. I valori più bassi si registrano nella provincia autonoma di Bolzano, che scendono al 16,4%. I numeri, che vengono dal rapporto Bes 2022, pubblicato poche settimane dall’Istat, disegnano un mercato del lavoro che da una parte non trova il personale necessario alle aziende, tanto che il tasso di occupazione in Sicilia, tra i 20 e i 64 anni, sempre secondo l’Istat, si ferma ad appena il 46,2%, contro una media nazionale del 64,8%; dall’altra, chi vuole impegnarsi in ogni modo è costretto a ridimensionare le proprie aspettative.

L’indicatore di rischio di povertà

Il dato relativo ai lavoratori sovraistruiti assume un significato maggiormente complesso e sfaccettato se si va a guardare l’indicatore di rischio di povertà, calcolato dall’Istat sui redditi del 2020: a fronte del 20,1% di persone, a livello nazionale, con un reddito netto equivalente inferiore o pari al 60% del reddito equivalente mediano registrato nell’intera penisola, in Sicilia e Campania il fenomeno arriva a interessare circa il 38% della popolazione. Nelle regioni del Mezzogiorno il rischio di povertà più elevato si associa anche a valori più alti dell’indice di disuguaglianza, che si calcola facendo il rapporto tra il reddito posseduto dal 20% più ricco della popolazione e il 20% più povero. Se in Italia arriva al 5,9, vale a dire che i più ricchi lo sono quasi sei volte di più rispetto ai più poveri, in Sicilia tale valore arriva al 7,2, superata soltanto dalla Campania, che arriva al 7,5. A seguire la Calabria, al 6,1, e la Sardegna, al 6,1.

L’inflazione galoppante

Incide, e non poco, sul tasso di povertà, l’inflazione galoppante e quindi il ridotto potere d’acquisto delle famiglie. Di conseguenza, nel 2022 è diminuito anche il “clima di fiducia”, che registra valori più bassi rispetto al periodo pre-pandemia. Non è un caso, visto tutto quello che è successo, che le famiglie dubitino di poter risparmiare in futuro e tentennano sull’opportunità di acquistare beni durevoli, consapevoli del deterioramento sia della propria situazione economica personale sia di quella del Paese.
Nonostante il quadro in ripresa, infatti, il 2022 non è stato un anno facile per le famiglie residenti in Italia; si registra, infatti, un ulteriore incremento della quota di famiglie che dichiarano di aver visto peggiorare la propria situazione economica rispetto all’anno precedente: dal 30,6% del 2021 si arriva al 35,1% nel 2022, ben 9,3 punti percentuali in più di quanto si registrava prima della pandemia (25,8% nel 2019), con valori dell’indicatore pari a 34,7% nel Centro, 34,3% nel Mezzogiorno e a 35,8% nel Nord.

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